Chi è Papa, il nomignolo affettuoso di Ernest Hemingway; il suo mito, passato o recente, quello che Woody Allen presenta in due mirabili clips in Midnight in Paris; l’uomo nascosto dietro il mito, o solo le parole terse (e già solo quelle basterebbero per mantenerlo nel Pantheon dei grandi), pescate da uno sguardo passato quasi a setaccio sul fondo del mare della vita, ad imprigionare i dettagli di camminatoi, strade, sentieri, passaggi, vie, colline e mari a Parigi, Pamplona, Africa, Key West e Cuba; uno sguardo che sembra uscire da un corpo fattosi puro osservatore, anche quando la maschera indossata è quella di una hard-boiled night di Robert Jordan con la fragile Maria, dai capelli cortissimi e dal corpo violato in Farewell to the Arms, Addio alle Armi.
Non regge più la favola del macho pieno di sé accanto alla preda uccisa nel safari in Africa del 1934 o del grande pescatore a bordo del Pilar con a fianco un marlin invidiabile, anche se non paragonabile a quello di Santiago, the old man and the sea nella novella che valse a Hemingway sia il Pulitzer nel 1953 che il Nobel nel 1954. Le foto di un Hemingway diciottenne sulla branda, con lo sguardo se non gioioso perlomeno ancora innocente, dopo essere stato ferito nel 1917 a Fossalta del Piave, nei pressi di Venezia, non trasmettono certo quell’immagine di virilità imponente che il grande cacciatore o boxeur seppe creare, come se passasse tutta la sua giornata a dare di boxe, pescare, ammirare tori, sparare nel lick africano e ovviamente bere uno, anzi, più mojitos. Una vita di pura sregolatezza ed avventura?
La routine di vita dello scrittore a Cuba negli anni Cinquanta (ma anche a Parigi negli anni Venti, anche quando i mezzi erano ben più miseri) era a dire il vero simil-monastica; sveglia appena chiaro, scrittura, rilettura, riscrittura, fino a trovare quel “sospeso” che avrebbe permesso il giorno dopo di riavviare la scrittura, e poi nel pomeriggio leggere i grandi autori, ascoltare i grandi compositori, ammirare i grandi pittori (in un’intervista Hemingway fa un elenco di una quarantina di nomi fra scrittori, musicisti e pittori, e poi si ferma per non peccar d’omissione, ma sempre in testa a tutti metterà Mark Twain, Bach e Cézanne) e poi vedere amici e mogli (ne ebbe quattro, Hadley, Pauline, Martha e Mary, e tre le lasciò solo quando la nuova moglie era già certa), e far tutto quello per cui il mito nacque, in un continuo peregrinare da una terra all’altra. Viaggiatore ed esploratore che fissa spesso nei suoi scritti lo sguardo sulla strada, anche quando la strada è la scia della barca di Santiago.
Il mito del macho non è crollato per il suicidio del grande scrittore nel 1961, esito non di disperazione esistenziale, ma di trauma cranico, problemi alla vista, danni a fegato, milza e reni, causati dai due incidenti aerai in Africa nel 1953. Le ferite riportate lo provarono sul piano sia fisico sia nervoso, trattato anche con elettroshock, la degenerazione delle condizioni psicofisiche aggravate dall’alcool e la conseguente perdita della memoria a breve termine e allucinazioni paranoiche furono inarrestabili. Mary, l’ultima moglie, lascia aperto il mobiletto delle armi, perché un uomo, riferisce la biografa Lynn, ha diritto a poter prendere ciò che è suo; Hemingway scende, apre il mobiletto, prende il fucile a doppia canna e si spara. Un segno di coraggio? E’ questo che Hemingway adombrava con la carcassa del leopardo venuto a cercare la morte sulla cima del Kilimanjaro? Il courage, grace under pressure? Il coraggio, grazia sotto pressione? Se vale per Hemingway anche quello che lui stesso disse del padre suicida, il suicidio è egoismo non coraggio.
Per la critica letteraria, il macho è svanito nella discussione del gender seguita alla pubblicazione postuma di The Garden of Eden nel 1986, romanzo dove la sessualità si fa variegata, anzi, confusa, ed è subentrata la lettura psicanalitica che vede nel rapporto di odio per la madre Grace, che lo vestì come la sorella da bambino e gli fece prendere lezioni di clavicembalo, un aspetto fondamentale dello sviluppo della sua personalità, umana e letteraria. Per non parlare della lettura ecologista di Santiago come l’uomo che vive nella natura, anche questa alimentata dal mito dell’uomo che fin da bambino sul Lake Michigan andava a pesca col papà, e che ebbe in dono il suo primo fucile a dieci anni.
Ma se il macho è esistito principalmente nel mito che tanto serviva alle copertine di Time, chi era Hemingway, e che rapporto aveva con se stesso, vale a dire con his writing, la sua scrittura, la sua opera? Più volte Hemingway espresse la sua scarsa considerazione dei critici, intenti a tradurre ciò che, se vero, parla da sé, mentre i critici non prestano attenzione ai dettagli, e i dettagli sono l’essenziale. Ebbe parole di ammirazione solo per il critico Kaskhin che lo riassunse come un insieme di contraddizioni, una mens morbida in corpore sano, a cui faceva da cura la scrittura non a caso definita da Hemingway architecture, architettura, e non Barocco, punta di un iceberg ben oltre la superficie.
Quale è la “malattia” che rese la mente di Hemingway morbida, e non nel senso di indulgere in dettagli morbosi, ma in quella “naturalezza perversa” che associa nella prefazione di Addio alle Armi le due stesure dell’opera, l’una, alla nascita del figlio con parto cesareo, e la seconda, al suicidio del padre?
La muerte, che sta al centro della faena carica di aficion del matador nella corrida spagnola; morte, lavoro e passione che stanno al centro della minuziosa narrazione della corrida spagnola in Death in the Afternoon già nel 1932. La corrida, spiega Hemingway, insegna a scrivere, perché “Cercavo di imparare a scrivere incominciando dalle cose più semplici, e una delle cose più semplici e fondamentali è la morte violenta”, Morte nel Pomeriggio (cap. I). E cosa trasmette il torero nel mezzo di una grande faena? “Il sentimento dell’immortalità”, che “dimostra con la spada” (cap. XVIII). Tale è la potenza di questo gesto iconico che dal 1932, anno in cui raccontò in Death in the Afternoon, con dovizia di foto e dizionario, la realtà della corrida, al 1952, anno di pubblicazione di The Old Man and the Sea, Santiago alza la lancia e la affonda nel marlin nello stesso gesto del matador che mette la pica nel corpo del toro. Perché il cacciatore di The Green Hills of Africa (Hemingway stesso) si vergogna del colpo mal tirato al bufalo che gli ha fatto uscire le budella che l’animale ora si trascina dietro, senza poter morire.
Istinto di autodistruzione latente, come quello che ha spinto il leopardo di The Snows of Kilimanjaro in mezzo alla neve di vette altissime a morire? Shakespeare ebbe a definire la morte come “the undiscovered country,/from which no traveller ever returns“, metafora ben adeguata di un viaggiare di corpo ed anima alla ricerca di ciò fa di uno scrittore uno scrittore, come ebbe a dire Hemingway nel discorso di accettazione del Premio Nobel: “Se è uno scrittore abbastanza bravo deve affrontare l’eternità, o la mancanza di essa, ogni giorno”.
Al fondo dell’esplorare di Hemingway sta il segreto a tutti familiare e a nessuno conosciuto, quello rispetto al quale si è soli nell’arena, matador e toro, uomo e pesce: come vivere la vita che va verso la morte, e che muore ad ogni istante. Hemingway ebbe a percepire la mortalità, la finitezza, e a ricercare come essa potesse divenire opera d’arte. La precisione della scrittura, la cesellatura dell’apparente semplice, il dialogo ricco di dettagli “inutili” al procedere narrativo, il ritmo jazzistico che Tom Stoppard, drammaturgo contemporaneo, orecchia nella prosa di Hemingway, non sono “decorazione di interni”, ma appunto “architettura”, che trattenga nell’essere, per il breve tempo di una lettura, ciò che rotola verso il nulla.
Per questa tensione la pagina più commovente di Hemingway è la conclusione di Death in the Afternoon, il “Se fossi riuscito a fare un vero libro, ci starebbe stato dentro tutto”; perché questa era l’ambizione di Hemingway, tentazione mortale del romanzo moderno, che tutto possa stare nel romanzo, che l’arte possa tutto com-prendere.
Una illusione molto estetica, molto affascinante, molto fragile, e che solo gli esteti tremendamente seri sanno essere bellezza di un attimo che è desideroso di eternità. Soprattutto se l’eternità è evidente come mancanza della stessa; e cosa nega di più l’eternità che la morte? Nasce così il rimpianto, non emotivo ma esistenziale, di tutta la realtà che si è vissuta e che si consegna alla scrittura tersa e pulita come la carcassa del leopardo, dried and frozen, “secco e congelato”. E’ lo stesso continuo rimpianto di Santiago di non avere con sé the boy, perché tutto sarebbe diverso se ci fosse il ragazzo sulla barca, fino alla coscienza epifanica di come sia diverso “avere qualcuno con cui parlare invece di parlare soltanto a se stesso e il mare”. Per Hemingway scrittore, la “compagnia” qui desiderata è quel “sospeso”, quel punto che dice allo scrittore una cosa molto semplice, e assolutamente vitale; che il giorno dopo potrà, ancora, scrivere. Anche solo per ammirare la “coda così bella, così ben fatta” del marlin, unica cosa rimasta della bellissima forza e maestà del marlin ucciso da Santiago, che non ha nulla della rabbia irosa di Ahab contro la grande balena Moby Dick.
La cura alla mortalità di cui siamo tutti afflitti fu per Hemigway la scrittura. Cura palliativa, certo; il suo “cattolicesimo scettico”, nelle parole di Kaskhin, non lo portò oltre, ma la storia non ha mai fine. The Old Man and the Sea si chiude con”The old man was dreaming about the lions“, “Il vecchio stava sognando i leoni”; Papa sta ancora scrivendo la storia.
E se questa lettura vi è parsa un esplorare “to arrive where we started“, spero che Papa ne sia contento.
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Il testo è stato preparato dall’autrice in occasione della conferenza su “Ernest Hemingway” tenuta ieri sera a Brescia nell’ambito del ciclo di incontri del “Mese letterario” 2016, a cura della Fondazione San Benedetto.