Pubblicato per la prima volta dall’editore milanese Treves nel 1881, I Malavoglia di Giovanni Verga racconta una lunga storia che abbraccia un quindicennio (1863-1878) e che ha il merito di descrivere sul campo la faticosa e, per più versi, angosciante transizione della Sicilia verso le nuove relazioni giuridiche e sociali dell’Unità d’Italia. 



L’operazione riesce in modo particolarmente acuto e incisivo allo scrittore catanese, perché il punto di osservazione non è costituito dall’analisi sociologica o storiografica, bensì dalle vicende di una famiglia del tempo, emblema di storie che coinvolgono almeno tre generazioni di “regnicoli” e sudditi meridionali. La critica letteraria si è cimentata nel tentativo di dare un volto concreto alla famiglia Toscano, che, per antifrasi, nella parlata comune della gintuzza di Aci Trezza diviene “Malavoglia”, proprio a causa della sua elevata laboriosità. E tuttavia, la forza della narrazione verghiana non è quella di avere messo insieme più frammenti di vite realmente esistite, ma di averle raccontate in modo veridico e aderente alla realtà storica, a prescindere dall’identificazione personale e anagrafica eventualmente individuabile. 



Come per tutte le opere di questa fortuna (si pensi ai Promessi Sposi di Manzoni o, restando allo stesso Verga, forse al suo Mastro Don Gesualdo, di poco successivo), il senso comune e la cultura popolare hanno decretato il successo dei personaggi ritenuti archetipici. Il sentenzioso Padron ‘Ntoni, le figure che davvero raccontano l’angusta e quasi trascinata vita di paese (l’inquietante Zio Crocifisso) o che testimoniano tragedie storiche (il buon Luca, uno dei tanti “neoitaliani” andati allo sbando a morire durante quella che poi gli storici e i politici etichettarono come “terza guerra d’Indipendenza”)… Eppure la realtà di questi anni e gli studi più articolati e compiuti di quelli dei Malavoglia ci costringono a prendere per vera l’ipotesi che il personaggio più “reale” e palpitante del volume sia lo scapestrato nipote del patriarca, ‘Ntoni. 



Lo è anche da un punto di vista letterario, visto che nella narrativa odierna tanti autori vogliono reclamare per sé, alla fine delle grandi “narrazioni” metaetiche e delle grandi famiglie ideologiche, lo scettro da libertari e non convenzionali: rispetto ai loro personaggi da tabloid, l’irregolare di Aci Trezza è un lupo che si dimena nella cattività, l’inquieto che è divorato da dentro dai suoi fantasmi e, al di fuori della sua coscienza, dal fardello del lato ingiusto della Storia. Nel 1863 è costretto a partire militare: triste realtà di una Sicilia che la leva obbligatoria non l’aveva ancora mai conosciuta. E lo sgomento della famiglia Toscano è un dipinto di contadini e pescatori alla giornata di tutto il Sud: parte il più valente paio di braccia della casa; il bilancio si stringe. E si restringono le branchie delle relazioni sociali quando arriva la miseria: non c’è più spazio per la libertà, c’è solo la doverosa difesa (in retroguardia) del decoro perduto.

‘Ntoni prova a sfuggire, ma fallisce anche da emigrante e quando torna al paese lo scenario della sua astiosa insofferenza verso l’ordine non scritto delle cose ha trovato nuovi compagni: i pomeriggi a bere e il contrabbando. Cani randagi della società meridionale, nei decenni a seguire, trovarono la “maffia”, e poi l’eroina e poi le droghe sintetiche e ancora il contrabbando e ancora la bottiglia. 

Chiunque si senta costretto in un ordine delle cose rischia di scavarsi galere più grandi: questo ci dice ‘Ntoni. Galere, però, almeno costruite con le proprie mani e non camicie di forza confezionate dalla retorica politica o didascalica. ‘Ntoni croce e delizia, ché il disagio non fa male soltanto a se stessi, ma anche agli altri: venduta la barca di famiglia, finita in mani diverse e nemiche la casa patriarcale. ‘Ntoni, nonostante tutto, che si porta addosso la seduttività perversa dell’insofferenza e che, perciò, la padrona dell’osteria predilige allo sbirro fitusu e leguleio protetto dalla verità della sua divisa, Don Michele. La coltellata con cui l’aspirante malacarne ferisce lo sbirro è una forma soltanto provvisoria e anodina di sollievo e soddisfazione: sarà fonte, anzi di nuovi guai. Perché l’altra faccia della legalità unitaria è l’avvocato del giovane irrequieto, che sa i codici, nel senso che li usa come strumenti per rimaneggiare i fatti a processo ed ecco che la coltellata diviene difesa dell’onore di Lia, l’amata sorella. Povera sventurata! Finirà, per scacciare l’eco molesta e divoratrice delle voci, prostituta a Catania — altra categoria ipocritamente repressa dal diritto “criminale” (come si diceva) del Regno, cui erano destinate misure di prevenzione a pioggia e come sarà per decenni. 

Alla fine, abbiamo ‘Ntoni tramortito e redento che è finalmente entrato nella logica del rispetto delle sue radici: dopo una vita di tumulto e tumulti, l’equilibrio è il commiato amaro all’innocenza perduta. I vecchi critici, troppo gramsciani troppo crociani o forse semplicemente ansiosi di arrivare a quella che gli storici e gli esegeti chiamano “moralisatio” (trarre le conseguenze morali da fatti naturali e umani), contrappongono l’erratico autoesilio di ‘Ntoni — in paese, ma non nella casa di famiglia — ai valori costruttivi, semplici e dimessi di Alessi, che mette su famiglia e riesce a riottenere la Casa del Nespolo. 

Sì, probabilmente la contrapposizione c’è. Ma se fosse tra vittoria e sconfitta… potremmo capirlo. Visto che la si imposta come contrapposizione tra la ragione ed il torto, non ci sentiamo di relegare ‘Ntoni alla condanna che già ha avuto sulla pagina. Come tutti gli insofferenti travolti dalle transizioni, è più carcerato che carceriere, più estraneo che complice. Nelle angosce violente di ‘Ntoni c’è tanto della precaria condizione di molti trentenni di oggi: incattiviti dai tempi, in equilibrio assai incerto sul crinale del tempo che cambia, artefici del proprio destino e contemporaneamente costretti a gestire la transizione verso un ampio peggioramento delle condizioni di vita. La peggior pena di Don Chisciotte, e però il suo più consolatorio sollievo, non fu proprio il “morir rinsavito”?