Purity, l’ultima fatica di Jonathan Franzen, non delude, almeno non subito. Come i due precedenti, Le correzioni e Libertà, è un romanzo “sinfonico” nel quale le vite di diversi personaggi sono passate al setaccio e poi intrecciate per il lettore in modo così approfondito e completo che alla fine sembra quasi di averne preso parte. I pregi e i difetti, le abilità e le mancanze, i successi e i fallimenti sono espressi in modalità torrenziale.



Purity (Pip per gli amici), la protagonista dal nome ingombrante che dà il titolo al libro, è l’anello tra la storia e gli altri personaggi. Quando il lettore ne fa la conoscenza non è sicura della sua data di nascita, non ha mai conosciuto il padre e vive in California. Inconsapevole della sua bellezza e ostacolata dalla sua intelligenza in un panorama di mediocri, a 23 anni ha un solo, vero problema. La madre. Neanche i 130mila dollari di debito universitario superano l’ingombro oscuro che la madre ha nella sua vita, avendole mentito sin dal primo giorno praticamente su tutto pur di mantenere l’anonimato e ostacolare le eventuali ricerche del padre. La madre si fa chiamare Penelope ed è un’ereditiera miliardaria fuggita dalla famiglia anni prima ma Pip non lo sa. Anche se le rimane attaccata come l’edera, al lettore pare chiaro da subito di essere davanti a un personaggio bisognoso di adeguato e possibilmente cronico supporto farmacologico tanto Franzen è bravo a ritagliarle addosso manie e fobie di una personalità instabile. Con questo corredo Penelope esaspera così bene il lettore che è quasi un sollievo che l’autore non la proponga in ogni capitolo.



Penelope cresce Pip da madre single in una baracca al limite di una minuscola comunità nella Bay Area californiana. E’ ipocondriaca e ansiosa che Pip faccia onore al suo nome: pur allungando il guinzaglio per permetterle di trascinarsi in una normale vita di delusioni, rimane nella sua bolla anacronistica in cui anche i vestiti sono quelli del passato, e pretende che le sue distorsioni siano comprese, accettate e fatte proprie anche dalla figlia. Ogni volta che Pip cerca legittimamente di estorcerle delle informazioni sul padre ecco che Penelope prende una serie di atteggiamenti dissuasivi, che fanno leva su sensibilità e senso di colpa di Pip, per distogliere l’attenzione. Questo modello di vita votato all’uniformità emotiva ed esistenziale le aveva precedentemente alienato il padre di Pip (prima che nascesse) il quale, dopo anni di silenziosa sofferenza, aveva dovuto chiamarsi fuori pur di rimanere sano di mente. Un particolare da ricordare: neanche il padre di Pip sa di lei, è un padre a sua insaputa mentre Pip sa della sua esistenza ma non ne conosce l’identità. Pip scoprirà chi è forse nel peggiore dei modi, intrappolata in una rete invisibile costruita dalla mente più malsana di tutte, anche di quella materna.



Il personaggio con cui Pip si incrocerà come un pianeta con un buco nero è Andreas Wolf: anche lui (come Penelope) mette alla prova la resistenza del lettore. Tedesco della Germania dell’Est fuggito in Bolivia dopo la caduta del muro, concorrente fittizio di Assange e Snowden, è a capo di un gruppo di hacker che scopre le malefatte dei potenti della Terra. La fama quasi perfetta di cui gode, e dalla quale è tormentato, ha tuttavia una macchia color sangue che lo insegue fino alla fine del romanzo, trascinandolo con il lettore in elucubrazioni mentali talvolta estenuanti. Aver vissuto parte della sua vita ai tempi della Stasi (di cui il padre era silenzioso collaboratore) non lo ha aiutato nel mantenere un rapporto sano con la realtà e soprattutto con la percezione di sé: vittima di un ego ipertrofico e del tutto estraneo ai pericoli del pensiero libero nella Germania dell’Est, pubblica un volgare libro di poesie che gli vale l’espulsione immediata dall’università. Solo grazie all’influenza del padre riesce a farla franca, ma deve rifugiarsi nel sotterraneo di una chiesa dove rimane per anni, prestando la sua consulenza a giovani sbandati e cessando i rapporti con la famiglia. Questo isolamento forzato incide sulla personalità di Andreas, già messa a dura prova da una madre emotivamente instabile, Katya, insegnante di letteratura inglese con un penchant per i giovani studenti. Quello che all’inizio è un isolamento dovuto alle circostanze, una volta in Bolivia diventa uno stile di vita condizionato da una paranoia incalzante che niente, neanche la devozione delle sue adoranti collaboratrici, può mitigare.

I personaggi di Purity non sono tutti patologici. Leila Helou, impegnata nel giornalismo investigativo con fonti sicure e legalmente acquisite, vive una vita un po’ intricata dividendosi tra il marito, uno scrittore che ha perso lo smalto e si trova a sperimentare una cupa decadenza professionale e fisica, e il compagno, il giornalista Tom Aberant, forse il personaggio meno problematico del romanzo. Entrambi stimano poco quelli come Wolf il quale entrerà nelle loro vite con un piccolo colpo di scena. Le caratteristiche e le storie di Leila e di Tom vengono offerte al lettore con l’abbondanza tipica dell’autore ma si amalgamano nella trama in modo più indolore per chi legge.

Tutti questi personaggi agiscono sullo sfondo di una società contemporanea ormai “matura”: dalla banca che vuole buttare fuori di casa degli squatter antigovernativi, colti e multietnici con cui Pip coabita, agli hacker che ricercano la verità credendo che le proprie azioni ricadano sempre nel giusto; dall’ingenuo che il 4 di luglio posta su Facebook la foto della fidanzata a cavallo di una testata da guerra da lui trafugata, ai politici, vittime delle lobby, che conoscono i pericoli a cui espongono gli elettori ma spesso non muovono un dito.

Per l’anteprima sul libro tenuta lo scorso maggio al Book Expo America a New York, in una conversazione pubblica con la critica Laura Miller, Franzen ha ammesso che per uno scrittore diventa difficile trovare sostanza per un libro man mano che il tempo passa, e che se all’inizio si può utilizzare materiale più a portata di mano, in seguito, scrivendo altri libri, è necessario scavare e cercare più in profondità. Sarà, perché lo dice l’autore stesso, ma pensando a Le correzioni e confrontandolo con Purity sembra vero l’esatto contrario. La profondità di Purity non arriva a un decimo di quella de Le correzioni, nel quale Franzen partiva da un doloroso spunto personale per affondare la sua lente impietosa nell’intimo di una semplice famiglia americana la cui apparente normalità viene sconvolta dalla malattia. La coerenza narrativa tiene fino all’ultima battuta mentre in Purity si slabbra forse per far posto a qualcosa con cui Franzen ha meno dimestichezza.

In alcuni passaggi la piattezza dello stile è compensato dal carico di emotività di un personaggio, dall’eccesso di stati d’animo che si sovrappongono quasi in un corto circuito. In scene come quella di Pip con Andreas nella stanza d’albergo in Bolivia ci si chiede se l’autore sia lo stesso dei capitoli precedenti tanto lo stile si appiattisce e il contenuto si svilisce. Il personaggio di Andreas, e la sua evoluzione nel corso del romanzo, è inutilmente ridondante: con 50 pagine in meno sulle sue meditazioni patologiche il lettore avrebbe capito lo stesso evitando il grottesco.

Insomma nonostante la qualità della scrittura, Purity perde di presa nella seconda parte dove, a tratti, si avverte una stanchezza narrativa al limite della forzatura. Dopo il terzo capitolo l’esasperazione di personaggi e situazioni provoca un appesantimento del racconto e una certa discontinuità stilistica. Se, come dichiarato nell’incontro di maggio, l’intenzione dell’autore era esporre il lettore a qualcosa di meno immediato, quindi una realtà fuori dalla tradizionale famiglia americana come nei romanzi precedenti, e anche di farci capire di aver letto Freud, di fatto ci è riuscito. Proporre una miliardaria a sua insaputa con madre dissociata e datore di lavoro esaltato e paranoico può funzionare a patto di rendere gli eventi e le psicologie resistenti nella tenuta narrativa, evitando al lettore di agonizzare su passaggi profondi, nell’intenzione dell’autore. Forse troppo.