Il mattino dagli occhi grigi sorride alla cupa notte,
mandando strisce di luce verso le nuvole d’oriente;
e l’oscurità già livida di macchie, come un ubriaco che barcolla,
si allontana dal sentiero del giorno e dalle ruote di fuoco del Titano.
Ora, prima che il sole giunga col suo occhio di fiamma
a rallegrare il giorno e ad asciugare
l’umida rugiada della notte,
io devo riempire questo paniere di vimini
con erbe velenose e fiori dal succo prezioso.
La terra è madre e tomba della natura:
il suo sepolcro è il grembo dal quale ha origine
la sua vita; e noi vediamo nascere
da questo grembo figli di varie specie, che succhiano
dal suo seno. Alcuni, ottimi per numerose virtù
(nessuno che ne sia privo), e ognuno differente dall’altro.
Oh, come grande e potente è la virtù che risiede nelle piante,
nelle erbe, nelle pietre, e nelle loro più segrete qualità!
Infatti nulla esiste sulla terra di così umile,
che non possa dare alla terra qualche bene particolare;
e nulla è così buono che, sviato dal suo uso,
non si ribelli alla sua vera natura, cadendo nell’abuso.
La virtù stessa, male adoperata, può diventare un vizio,
e qualche volta il vizio si nobilita per la sua azione.
Sotto la tenera membrana di questo fragile fiore,
c’è insieme un veleno e un potere medico;
infatti se l’odori, eccita ogni senso,
se lo assaggi, ferma il cuore e tutti i sensi.
Come nelle erbe, così nell’uomo stanno accampati
due re nemici: la grazia e la volontà spietata.
E quella pianta dove predomina la peggiore di queste
forze, è presto divorata dal cancro della morte.
Atto secondo, scena terza. Parla frate Lorenzo, uscendo dalla sua cella di buon mattino per cogliere le erbe dell’orto. In questi pochi versi, non tra i più conosciuti di Romeo e Giulietta, soprattutto se messi a confronto con la scena immediatamente precedente, quella della notte d’amore tra i due giovani, risiede, secondo una lettura esoterica della tragedia, la chiave interpretativa dell’opera. Ma anche senza ricorrere a teorie così particolari, questo testo offre una visione poetica e insieme realistica della natura, in particolare del mondo vegetale, le cui caratteristiche sono descritte nell’opposizione che tutte le cose racchiudono.
In ogni stelo, in ogni fiore sono nascoste sostanze che possono alleviare il dolore oppure fare del male. Ogni erba è ambivalente e spetta all’uomo usarne le proprietà. E lentamente l’osservazione botanica si trascolora nella riflessione morale. Sembra quasi di assistere alla versione poetica di una lezione sull’Etica a Nicomaco, là dove Aristotele espone con il rigore del filosofo la dottrina del giusto mezzo e sulle sue orme Dante Alighieri ordina tutta la costruzione dell’Inferno.
Gli ultimi versi raggiungono l’apice di questa visione della natura così drammatica da risultare quasi inquietante: due re nemici si contendono il cuore dell’uomo, e non sono, banalmente, il bene e il male. Shakespeare va più in profondità; parla da una parte della grazia, cioè di quell’attitudine positiva di cui l’uomo da solo non è capace, se non gli viene donata dall’alto; dall’altra della volontà spietata, senza pietà, senza compassione, senza il dolore di sé, che solo rende capaci di misericordia. E infine avverte che là dove l’equilibrio della lotta si sposta a favore della seconda tendenza, quella cattiva, si fa vicino il cancro della morte.
Come la foglia già intaccata che abbiamo imparato a notare nel Canestro di frutta di Caravaggio della Pinacoteca Ambrosiana, così la volontà spietata, l’assenza di perdono corrompe la bontà della vita e la fa precipitare nella morte.
Il dramma dell’inimicizia tra i Capuleti e i Montecchi è già tutto prefigurato in questa breve scena, ambientata sotto un cielo dove la notte saluta con un sorriso la luce dell’alba, promessa di un giorno che potrebbe essere radioso e che invece risulterà tinto di sangue. E le parole del frate sembrano abbracciare l’intero ciclo del cielo e della terra, la stessa vita dell’uomo, chiamato ad amare, ma così spesso incapace di obbedire al suo bene.