Alessandro Manzoni ha rappresentato una delle voci più interessanti dell’Ottocento europeo: per la sua formazione e per la sua opera, anche i più convinti e fondati detrattori devono fare i conti con questo oggettivo punto di partenza. Ciò non impedisce, nell’accostarsi ai personaggi dei Promessi sposi, il titolo più celebre del corpus manzoniano, di provare a suggerire categorie altre, rispetto a quelle dell’autore, in modo che i giudizi eterodiretti dal lascito morale ed intellettuale dello scrittore possano liberarsi all’esercizio mai vano del confronto con la contemporaneità. 



Il caso di Don Rodrigo è in qualche misura esemplare. Manzoni carica sull’antagonista un giudizio di sconsolante e sconsolata avversione alla riparazione dei torti nella giustizia privata, a sua volta originata da soverchierie e abusi indiscriminati. Di Don Rodrigo non si può fare l’esponente di una sorta di “morale del ladro”: non è Robin Hood, non è Ghino di Tacco. E’ un signorotto guappo tra i guappi, adagiato sul cuscino del suo potere locale. E’, in fondo, il retaggio di una mentalità largamente ancora feudalizzata: i possedimenti si misurano su base territoriale ed essi stessi determinano l’applicazione del diritto comune. Lo dice lo stesso Azzeccagarbugli: nell’imbrogliare le carte, conviene imbrogliarle a vantaggio del più forte.



La rivalutazione di Don Rodrigo è perciò, in primo luogo, giudizio negativo sui contenuti della sua forza: la legittimazione del despota è persino più fragile della sua psiche. Pare, per altro verso, che nel tratteggiarlo Manzoni abbia utilizzato un antecedente storico riscontrabile: un tirannello di casato e blasone che fu in contesa con gli avi dello scrittore. Non sappiamo se Manzoni abbia davvero fondato l’edificazione progressiva del personaggio sulla rivalsa verso antichi torti di cui probabilmente aveva memoria solo per interposta persona o, al massimo, racconto famigliare. 



Di sicuro, Francesco De Sanctis, pur a volte inconsciamente elitario nell’analisi dei personaggi (salvare per buoni quelli che afferivano alla sua stessa idea di moralità), ha scritto anche su Don Rodrigo pagine eccezionali, poi largamente strumentalizzate da parte della critica successiva. Uno dei temi fondanti del modo in cui Rodrigo occupa la scena è un’accezione tradizionale e fasulla dell’onore: l’onore possidente, gergale, capriccioso, obliquo e da taverna, pur se dubbiamente giustificato col lignaggio nobiliare. 

Guappo tra i guappi, allora, bramoso di Lucia, per gioco e concupiscenza, rozzo a tavola e così sprovveduto da non cogliere in fra’ Cristoforo i segni premonitori di una vendetta provvidenziale. Forse perché stupidamente non coglie che tra sé e Cristoforo il punto di congiunzione non è Lucia: non è desiderio cieco contro desiderio di protezione, la sfida. Il punto di contatto è la vita del frate prima della vocazione: è Lodovico. Che aveva “contratte abitudini signorili”, e che avversava con famelica e oscura rabbia malefatte ed angherie fino al delitto. Entrambi muovono da una concezione forte di ciò che sia onorevole: essenziale e sostanziale Lodovico-Cristoforo, tralatizia e ingannevole quella di Don Rodrigo. 

Per questo il modo in cui Don Rodrigo si consuma, il suo improvviso declino, è un capolavoro, una sequenza cinematografica: bagordi, ritorni agitati, sogni molesti, resa col tradimento del Griso, il capo dei suoi scherani. In un niente si consuma quel falso lignaggio: nemmeno trenta denari, nemmeno l’incedere della malattia, ma le sue semplici avvisaglie. Un declino retributivo, dove la beffa sacrilega che Don Rodrigo rivolse ad Attilio gli torna potenziata dalla disfatta. Devoti, però, a Terenzio (umani a cui nulla di umano può risultare estraneo) siamo un po’ più solidali con questo tiranno disarcionato, questo prevaricatore soverchiato a sua volta e infine sbatacchiato. Che ha impiccato la sua idea dell’onore e della riuscita a un modo falso di cui il Seicento rappresenta più la conclusione caotica che non il nobile canto del cigno.