Sergio Mattarella non poteva scegliere memoria, e luogo, più divisivi per celebrare la data della vittoria dell’antifascismo. A Varallo Sesia, dove il capo dello Stato si recherà per ricordare la liberazione della valle (compresa nell’arco alpino tra il Piemonte e Lombardia) dall’occupazione nazifascista, venne creata  la seconda repubblica partigiana. Quelle che la seguirono non furono organizzate in una rete, e perirono. Su questo episodio dell’autogoverno partigiano (che mostra l’impreparazione dell’antifascismo a essere una classe dirigente di nuovo conio, cioè alternativa a quella esistente) sono rimaste le splendide pagine ad esso dedicate da uno storico come Guido Quazza (Resistenza e storia d’Italia, Feltrinelli, Milano 1976).  



E’ il 10 giugno 1944, e alla “zona libera” fece seguito una “Assemblea di popolo”. Il Consiglio di Valle, come venne chiamato, fu il segno della volontà di non ripetere il passato e  formulare una  proposta per il futuro post-fascista.

In Valsesia si puntava ad avviare, al di là delle esperienze della democrazia  liberale e parlamentare, una forma inedita  di auto-governo. Era il progetto di una democrazia consiliare, di istituti diversi dai comuni e dalle province e dallo stesso parlamento, in cui il popolo potesse darsi forme di rappresentanza e di decisione da assumere direttamente senza l’impervio transito per le vie della burocrazia.



Durò pochissimo. La ragione risiede nel fatto che nei partiti l’uscita dall’antifascismo e dalla guerra civile coincise con un processo di istituzionalizzazione della democrazia; con l’eccezione del Partito d’azione, che costrinse il Comitato di liberazione nazionale ad un’importante e divisiva discussione sugli assetti istituzionali del dopoguerra. Nel Cln gli azionisti rimasero isolati. Da quel confronto risultò chiaro che il superamento del fascismo e delle sue istituzioni totalitarie non si conciliava con una scelta di forme non tradizionali come quella, appunto, della democrazia diretta, cioè “consiliare”.



Gli azionisti non ebbero il consenso neanche dei comunisti. Eppure nel 1919-1920 il fondatore del partito Antonio Gramsci e la rivista L’Ordine nuovo avevano innescato a Torino, alla Fiat, un grande processo, che dall’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920 avrebbe dovuto concludersi nel governo operaio della più grande concentrazione di forza-lavoro dell’industria italiana. Il dissenso nacque dal sospetto — non infondato — che si trattasse del  tentativo di radicare nel nostro paese il regime dei Soviet che aveva prevalso in Unione Sovietica.

A prevalere fu la volontà dei grandi partiti di gestire il presente con le regole e gli strumenti del passato. Nacque di qui l’illusione di un uso diverso, da quello burocratico e passivo dell’Italia liberale, dei suoi ripristinati vecchi poteri. 

Ma ci volle poco a rendersi conto, nel giro alcuni anni, che i partiti erano diventati delle formidabili macchine politiche. Esattamente come fu il loro nemico, che in vent’anni aveva spento o neutralizzato ogni libertà: “ha potuto resistere e mantenere il contatto con la realtà solo chi ha compreso che la macchina fascista poteva esser vinta solo da altre macchine più efficienti e più forti, e ha perciò tentato di darsi una struttura conforme. 

Così è nata, ad esempio, nelle carceri fasciste, la nuova classe dirigente del partito comunista italiano. Così si è capito, dopo aver perduto molto tempo, che solo la guerra e l’intervento di potenze più forti potevano battere il fascismo: la guerra, ossia quell’eventualità che ripugnava al vecchio antifascismo ancora impeciato di sentimentalismo patriottico”.

Proprio l’autore di queste righe, un dirigente del Partito d’Azione come Vittorio Foa, lo denuncerà nell’ottobre del 1946. Sono tratte da un articolo prezioso, intitolato “Le autonomie e le macchine politiche” (ripubblicato nel volume Per una storia del movimento operaio, edito da Einaudi nel 1980). Vi è sintetizzata con un’efficacia analitica insuperabile la storia dell’Italia fino alla Liberazione e viene prospettata, con una precisione quasi millimetrica, la storia dei rapporti incestuosi tra lo Stato, l’economia, i partiti, l’amministrazione pubblica fino ad oggi.

Il sistema elettorale proporzionale (non diversamente da quello uninominale del passato), la politicizzazione (attraverso il ricorso all’arbitrato statale) della lotta economica, la rappresentanza politica  priva di un rapporto fiduciario tra l’elettore e l’eletto ridotta a scelte delle direzioni dei partiti, il controllo dall’alto dello Stato centralizzato: sono meccanismi che avrebbero consentito a Dc, Pci, Psi eccetera una massiccia spartizione di risorse pubbliche (e private). E’  durata fino ad oggi. Con episodi per nulla declinanti, anzi crescenti (come denunciano magistrati coraggiosi come Piercamillo Davigo) di dissipazione del reddito nazionale e di corruzione in mille modi per accaparrarselo.

L’esperimento della Valsesia durò pochissimo, come tutte le repubbliche partigiane. Fu reso possibile da due circostanze: la partecipazione alla guerra di liberazione dai nazifascisti del 90 per cento della popolazione civile della Valsesia e il ruolo di guida avuto dal comunista Cino Moscatelli e da un sacerdote eccezionale come don Sisto Bighiani.

La normalizzazione della Valsesia e delle altre repubbliche partigiane segnalò che il vecchio Stato aveva ripreso a funzionare con il personale dei partiti antifascisti che aveva in parte sostituito la burocrazia fascista.

A celebrare il 25 aprile oggi ci saranno i suoi rappresentanti. L’ala eventuale di popolo sarà fatta non di antifascisti, ma di nicodemiti; gente che, al pari della maggioranza della popolazione, fa finta di credere che la nuova identità degli italiani risieda nell’antifascismo.

Neanche Mattarella dovrebbe avallare questa finzione. L’antifascismo, al pari della Resistenza, fu un fenomeno molto ristretto, fatto di minoranze. Ebbe un carattere scarsamente unitario (se non in superficie), ma alla radice dei cuori fu fortemente divisivo, se non antagonistico. 

I comunisti non si sono fatti scrupolo di definire i governi democristiani, a partire da quelli guidati da Alcide De Gasperi, reincarnazioni del fascismo e del corporativismo, strumenti della guerra civile e della guerra fredda,  al servizio degli interessi monopolistici e dell’imperialismo statunitense. La stessa musica è stata usata nei confronti dei governi guidati da Silvio Berlusconi e ora sotto schiaffo è Matteo Renzi. 

In altre parole non si ammette, non ci si rassegna al fatto che a decidere di mandare al governo un partito e un altro all’opposizione siano gli elettori o il parlamento. Si vive la propria esclusione dalle maggioranze col sospetto che esista una regia deputata a distribuire le carte, assegnare i ruoli. Di qui il prosperare di una storiografia fondata su trame, cospirazioni e complotti.

L’antifascismo non può essere la nostra identità nazionale perché non è riuscito a creare un nuovo Stato, a far funzionare una nuova democrazia. La grande speranza dei caduti e dei sopravvissuti alla guerra civile del 1943-1945 (direi fino al 1948) è rimasta un’illusione, una speranza perduta.

Chi deve difendersi da un abuso, perseguire un danno, salvaguardare un interesse violato o punire un illecito subìto sa che con la nostra amministrazione della giustizia è meglio che vi rinunci. I tempi di attesa sono lunghissimi. I costi da affrontare enormi. I risarcimenti meramente ipotetici, cioè altamente improbabili. Mai la giustizia ha avuto un così profondo carattere di classe.

Il diritto penale non è stato costituzionalizzato. Siamo ancora alle prese con un “giustizia di transizione”. 

In nome di velleitarismi come la cosiddetta “democrazia partecipativa”, dal parlamento agli archivi di stato e ai quartieri più periferici dell’amministrazione si sono creati poteri di veto ed estenuanti prolungamenti delle decisioni, inefficienze e inettitudini vere e proprie che paralizzano o neutralizzano ogni minimo cambiamento e riforma. L’iter di autorizzazioni, controlli, micro e false trasparenze, eccetera, e un esoso sistema fiscale impediscono gli investimenti stranieri e condannano le imprese  allo strangolamento, ad un morte lenta.

Uno degli storici più equilibrati ed acuti, Walter Barberis dell’Università di Torino, ha capito che la ricerca di identità di cui vive, o sembra vivere,  il nostro paese incagliato nel cinismo, nell’aggressione al vicino, nell’inconcludenza e nel culto astioso del proprio particulare, non può essere sopravvalutata cercando legittimazioni in pompose radici ideologiche. La realtà è un’altra, più tragica, ma da essa Mattarella dovrebbe partire per non aggiungere altra retorica ad un fiume che ne ridonda. Ha scritto Barberis: “l’Italia è una comunità nazionale leggera: ha scarso senso civico e non si riconosce in interessi generali. Si accende episodicamente come una comunità di sentimenti: il cordoglio per una scomparsa, la gioia per un successo sportivo talvolta denunciano il desiderio di condividere emozioni e sentire momenti di unità. L’unità, quando non sia frutto di conformismo, è un valore; ma raramente la storia italiana ha visto perseguito questo obiettivo. La patria ha sempre stentato a diventare una categoria del senso comune, perché gli italiani hanno coltivato con particolare passione l’interesse privato, perché sono spesso caduti nella tentazione delle lotte di fazione e delle guerre civili, perché sono soliti ignorare la loro storia e dividersi in estenuanti rese dei conti” (Il bisogno di patria, Einaudi, Torino 2010).