Il 23 aprile ha aperto un altro luogo della memoria, almeno di quella shakespeariana; la Schoolroom e la Guildhall di Stratford-upon-Avon, con la promessa di offrire il “capitolo mancante nella storia della vita di Shakespeare a Stratford – la formazione e l’ispirazione a recitare e scrivere”.
Arduo dire se ci abbia svelato davvero il mistero dei misteri, la risposta all’interrogativo su dove nasca la ricchezza apparentemente inesauribile del teatro di Shakespeare, quella per cui il canone di Shakespeare ingloba qualsiasi categorizzazione critica e la supera, e ogni singola opera, con poche eccezioni, accoglie e rimanda in un gioco di specchi prismatici qualsiasi lettura critica.
“Willy” è il mistero dei misteri, più enigmatico di Monna Lisa, e una passeggiata fra i banchi ricostruiti non lo svelerà al visitatore, anche se la povertà dei mezzi, dell’inizio, dovrebbe indurre qualsiasi visitatore a riflettere su quale piccola cosa sia un inizio. Un bambino (avrà avuto sei o sette anni) che va alla Grammar School del suo paese, a due passi da casa sua, con quello che era l’abbecedario del tempo, ma che non fa come Pinocchio che se lo vende per strada, ma se lo studia, e poi passa direttamente o quasi al latino, e in dosi massicce, tali da far vergognare lo studente medio di qualsiasi liceo classico di oggi. Lo stesso ragazzino che fece in tempo a vedere le rappresentazioni teatrali sacre in piazza delle Guilds medievali, prima che Elizabeth I suonasse loro la campana a morto abolendole in tutto il regno, ma anche gli spettacoli delle touring companies da Londra, già allora tutte ricche del fascino della grande città rispetto alla “provincia”.
Strano amalgama in una sottile penna d’oca in quel di Londra, dopo i “lost years”, gli anni intercorsi fra la “scomparsa” di William dal borgo natale, dopo la notizia anagrafica e scarna del matrimonio con Anne Hathaway e delle nascita dei gemelli, e le prime opere “a sua firma”, anche qui con poveri mezzi, per un piccolo, fragile inizio.
Che praticamente nulla di certo si riesca a dire su Shakespeare, la sua identità, la sua formazione, la sua carriera, la sua fede, la sua famiglia, i suoi interessi, i suoi gusti, non è l’occasione per l’esercizio esegetico ed interpretativo del critico, ma la salvaguardia, posta dalla storia, del mistero del piccolo inizio; che così tanto possa essere nato da una sola persona, una sola piccola scuola di provincia e una sola piccola vita di provincia.
Leggere Shakespeare oggi è un atto di fede, e non nella “cultura”, ma nell’umano, nella “picciola barca” di legno che tuttora traghetta nel tempo e fuori del tempo gioielli di luce:
Out, out, brief candle!
Life’s but a walking shadow, a poor player,
That struts and frets his hour upon the stage,
And then is heard no more. It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.
(Macbeth, V, v)
“Spegniti, spegniti, breve candela./ La vita non è che un’ombra che cammina,/ un povero attore/ che si agita e pavoneggia la sua ora sul palcoscenico/ e poi nessuno più l’ode. È un racconto narrato/ da un idiota, pieno di strepito e di furore,/ che non significa nulla“.
Macbeth di fronte alla moglie morta folle e suicida. Nulla, vuoto e caos; dung and death, ingiustizia di morte che le nostre mani hanno causato.
We are such stuff
As dreams are made on; and our little life
Is rounded with a sleep
(The Tempest, V, i)
“Siamo della stessa materia/ Di cui i sogni sono fatti;/ e la nostra piccola vita/ è racchiusa in un sonno“
Prospero, di nuovo potente, di nuovo “re”: Siamo sogni di una notte, anche quando giustizia è fatta.
To be, or not to be — that is the question:
Whether ‘tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune
Or to take arms against a sea of troubles,
And by opposing end them
The time is out of joint —
O cursèd spite,
That ever I was born to set it right!
(Hamlet)
“Essere, o non essere — quella è la domanda:/ se sia più nobile nella mente soffrire/ le frustrate e le frecciate della fortuna oltraggiosa/ o prendere le armi contro un mare di guai/ e resistendo porvi fine// Il tempo è fuori posto — O Maledetta sfortuna, che io sia nato per rimetterlo a posto“
Amleto, padre perso, corona persa, amici persi e madre rubata da un nuovo amore. Portar giustizia nel mondo, rimettere addirittura a posto la giuntura delle ossa del tempo, la grande vocazione, impossibile, se non confidandosi che ci sia senso in “the fall of a sparrow”, la caduta di un passero.
FOOL
Do you know the difference, my boy, between a bitter fool and a sweet one?
LEAR
No, lad. Teach me.
FOOL
That lord that counseled thee
To give away thy land,
Come place him here by me.
Do thou for him stand.
The sweet and bitter fool
Will presently appear —
The one in motley here,
The other found out there.
LEAR
Dost thou call me fool, boy?
FOOL
All thy other titles thou hast given away that thou wast born with.
(King Lear, I, iv)
MATTO – Lei sa la differenza, amico mio,/tra un matto amaro e uno dolce?/
LEAR – No, ragazzo. Insegnami.
MATTO – “Quel signore che ti dié “il consiglio/ di dar via “le tue terre,/ venga a far star qui con me:/ “è la parte adatta a te./ matto dolce e matto amaro:/ allora si vedranno/ “uno, in veste di buffone, qui,/ “l’altro… eccolo lì”.
LEAR – Ragazzo mi dài del matto?
MATTO – Gli altri tuoi titoli li hai dati via tutti quanti: con questo/ ci sei nato
Re Lear. Sperperiamo tutto, la terra, l’onore e gli affetti, i cavalieri, la dignità, finendo ad arrancare nella brughiera matti, urlanti, vecchi, ma ci resta la compagnia del Fool, unico a chiamarci per nome, col solo titolo con cui nasciamo; siamo sciocchi, incapaci, fragili. Sbagliati.
Ma che gloria, solo possibile nella Christian psychology, la definizione di W.H. Auden dell’antropologia di Shakespeare, che tanta miseria, tanta culpa, tanta piccolezza, dia vita, ora, e non ieri, a tanta grazia.
(4 – fine)