Nella prospettiva di una visione ascetica, l’opera poetica di san Giovanni della Croce (1542-1591) si mostra emblematica di un atteggiamento contemplativo capace di fornire, nel corso del tempo, importanti lasciti sia nel pensiero che nella letteratura. Con grande intensità espressiva affiorano ancora oggi dalle sue parole, in un’estetica della rappresentazione, ampie figurazioni del sacro. 



Quella di san Giovanni è una vocazione spirituale che ha seminato il genio della cultura contemplativa oltre il limite di ciò che è strettamente religioso. Si potrebbe dire che la mistica sia una possibilità della filosofia, ma non è così, oppure che la mistica sia un’esaltazione letteraria, ma non è neppure così. Potrebbe essere il risultato di una mente alienata dalla realtà, ma come fa una tale condizione a vivere nell’ansia di un contatto con l’ineffabile? Inoltre la parola gareggia insieme al silenzio in un profluvio d’immaginazione. 



Si può notare che un senso dell’infinito sfocia in una vera e propria poetica del sacro. Un demone della spiritualità estende infatti la sua aura fino a comprendere i lati più oscuri e perturbanti dell’animo umano. Scrittori, artisti, filosofi sono spinti, in questa loro estesa aspirazione, da quella che potremmo forse chiamare, come è stato detto da vari studiosi, “teologia negativa”: l’indicibile, l’inesplicabile, è connesso ad un’esperienza fuori del comune, eccezionale, inviolabile, a un nulla dell’inizio. Tanti potrebbero ritrovarsi infatti in un pensiero di Leopardi: “In somma, il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla” (Zibaldone, 18 luglio 1821). Com’era, in san Giovanni della Croce, questa ricerca di Dio, una ricerca del Nulla? 



La domanda muove da un incontro tra la creatività artistica e speculativa e la materia delle religioni, un incontro che si è plasmato anche nelle forme del mistero e della profezia. Il sacro presuppone qualcosa d’intraducibile. E l’arte esprime qualcosa che non si può dire in nessun altro modo. Ciò ha un aspetto tipologico, l’arte figurativa e la musica esprimono quello che le parole non possono esprimere, oppure un aspetto di credo mistico. Molti scrittori e artisti risolvono il problema dell’ineffabile attraverso l’evocazione di immagini, mirando al fatto che il sacro non possa essere detto, ma solo rappresentato. La poesia riesce a trasmettere l’indicibile attraverso degli attributi estetici forniti dalla retorica e scaturiti dall’immaginazione. Il linguaggio poetico (l’arte calata nel linguaggio) suscita così in noi una pluralità di rappresentazioni affini. 

È quanto succede nella parola figurata di san Giovanni della Croce, come nei suoi disegni. La salita al Monte Carmelo è un modo per arrivare al tutto, un modo per avere il tutto, un modo per non ostacolare il tutto. Limite e raccoglimento sono i punti d’espansione dell’immaginario estatico, vertice di una rappresentazione del sacro nella rete della mente umana. 

Di questa trama, che si traduce in “musica silenziosa”, si parlerà nella giornata di studi su san Giovanni della Croce promossa dal Centro studi Sara Valesio (Genus Bononiae) e dal Dipartimento di Scienze dell’educazione (iconologia e iconografia)  dell’Università di Bologna oggi, giovedì 28 aprile, nella Chiesa di San Colombano, via Parigi 5, Bologna, dalle 11 alle 18. Studiosi italiani di varie discipline s’incontrano per offrire sguardi incrociati sul misticismo e la poesia muovendo dalla figura di San Giovanni della Croce, esempio illuminante di questa unione.

Raffaele Milani

San Giovanni della Croce è un classico della letteratura mistica; il che significa tra l’altro (questa precisazione non è necessariamente ovvia) che questo autore è una figura complessa e controversa. Aggirandosi com’egli fa al crocevia — la metafora non è gratuita — di filosofia, teologia, mistica e poesia, san Giovanni è stato di volta in volta criticato come non-filosofo e come teologo sospetto; né sono mancati coloro che hanno messo in dubbio anche la qualità della sua mistica (e non mi riferisco ai suoi contemporanei: parlo dell’ambiente culturale alla cerniera dell’Ottocento e del Novecento). L’unico suo “titolo” che, dalla modernità alla nostra contemporaneità, pare non sia stato mai posto in questione, è quello di poeta. Ma ciò non semplifica molto le cose. Chi infatti (come il sottoscritto) non vede ragione di negare a san Giovanni le altre sue tre qualifiche, le quali dunque restano pertinenti, non può non porsi il problema di quale sia il loro rapporto con la sua poesia; in particolare, la poesia di san Giovanni perviene alla poesia contemporanea carica dell’onore e onere di essere quel tipo di poesia comunemente chiamata mistica. E in questo senso la poesia contemporanea sembrerebbe relegare la poesia di san Giovanni in una posizione che, pur restando naturalmente di tutto rispetto, si ridurrebbe però a una collocazione storico-archeologica.

Già negli anni Settanta una romanziera-filosofa inglese (Iris Murdoch) notava che “la cristianità non è semplicemente stata abbandonata, ridotta a oggetto sconosciuto. Un’intera generazione è cresciuta senza di essa […] A quanto pare, stiamo entrando in un tempo a-teologico. Perfino la teologia marxista ha perduto il suo fascino”. Che rapporto c’è allora, ammesso che un rapporto esista, fra questo santo cinquecentesco e la poesia contemporanea italiana (e non solo)?

La  parola che — anche se è così strettamente legata alla figura del Santo — io proporrei, se non di ritirare dall’uso, per lo meno di mettere tra parentesi, è la parola “mistica”; perché questo termine oggi rischia di essere stiracchiato fra due mosse opposte che ne riducono fortemente l’utilità. Una è la mossa dell’ampliamento eccessivo. “Mistica” è un termine tanto provocante quanto evanescente: sia nella sua connotazione positiva — che si riduce troppo spesso a una sorta di tenero e generico entusiasmo sempre sull’orlo del kitsch — sia nella sua connotazione negativa, tipica dell’ideologia molto diffusa nella cultura italiana contemporanea, compresa la sua cultura poetica, per cui “mistico” diviene sinonimo di “puramente irrazionale” e viene spesso e volentieri svilito con un suffisso dispregiativo: “misticheggiante”.

L’altra mossa — opposta ma complementare nel suo riduzionismo — è quella che tenta di delimitare una zona specifica per questo termine/concetto, confinandola in un’area tecnica che richiede di distinguere un suo uso autorizzato da un uso non autorizzato. Insomma, una sorta di tirannia nominalistica, una recinzione riduttiva, e non importa poi troppo, fondamentalmente, se la recinzione sia di tipo teologico o psicopatologico. Questa perimetrazione troppo stretta è stata criticata, fra l’altro, in certi sviluppi contemporanei della psicologia del profondo di origine junghinana: “Strano a dirsi, oggi è difficile parlare della psiche in modo diretto”, scrive  per esempio James Hillman. 

La mistica — come del resto la poesia — può essere definita soprattutto indicando quello che essa non è (in entrambe le esperienze, infatti, vi è un forte elemento apofatico; la mistica, come la poesia, dimora all’ombra del topos della ineffabilità). La mistica si invisibilizza continuamente, se posso usare questo neologismo (per il linguaggio della mistica, così come per il linguaggio della poesia, le occasionali neoformazioni non sono un capriccio ma una necessità). Dunque la elusività della mistica non dev’essere dissipata, ma bene accolta. 

A questo punto, e a costo di un’apparente contraddizione, vorrei aggiungere un altro termine alla lista dei “titoli” di san Giovanni della Croce: il termine “psicologo” (una parola che ai suoi tempi era appena nata, e sarebbe restata semisconosciuta per quasi due secoli). Ma la contraddizione è apparente, perché qui non si tratta di delimitare tecnicamente l’area d’uso di questo termine: trattando il santo da psicologo si vuol dire semplicemente che, nel suo pensiero e poesia, egli ci serve ancora da guida alla comprensione della psiche in quanto anima. 

Paolo Valesio