Quel Novecento ossessionato dalla modernità, secolo che ci ha trasmesso criteri ed ansie rispetto all’ideologia delle novità, è stato attraversato da un uomo che ha fatto della parola uno straordinario strumento d’incontro, di evangelizzazione, di dialogo, di verità. Giovanni Battista Montini, papa Paolo VI dal 1963 al 1978, si pone rispetto al tema della modernità, che altri affronta brandendo un’alterità militante, con fiduciosa fermezza, cercando nell’umano e nel suo connaturato senso religioso (sarà l’arcivescovo Montini a coniare questo termine poi divenuto tanto caro a don Luigi Giussani), il terreno di un incontro leale, franco e appassionato. “L’uomo moderno è come colui che uscito di casa ha perso le chiavi e non sa più come rientrarvi” dirà sempre l’arcivescovo parlando dell’uomo contemporaneo come di colui che è un “disorbitato” perché ha perso il suo centro.
Questo Montini-Paolo VI si autoracconta nella bella raccolta di testi che il direttore dell’Osservatore Romano Gian Maria Vian ha riunito nel volume Un uomo come voi. Testi scelti 1914-1978, edito da Marietti.
Un percorso, quello indicato da Vian, che prende le mosse dagli scritti giovanili, il primo esce dalla penna di Montini a soli 16 anni e giunge sino all’ultimo, la famosissima omelia pronunciata in occasione della morte di Aldo Moro, a poche settimane dalla scomparsa dello stesso papa. In mezzo, caratterizzati da una straordinaria unità di pensiero e di spirito, gli scritti di Montini educatore dei giovani negli anni della Fuci, di Montini diplomatico, dell’arcivescovo di Milano e poi del pontefice.
La questione per Montini è evidente: innanzitutto vi è una chiara diagnosi del tempo moderno, caratterizzato da una trascendenza anoressica e dalla trasformazione dell’esperienza religiosa in esperienza morale, per cui Dio finisce con il coincidere sempre più con un sistema di valori adattabile ovviamente alle mode del tempo. Tutto si risolve, scrive Montini in “Coscienza universitaria”, in “atti di coscienza” che sotto l’imperio della cosiddetta contemporaneità, portano a qualcosa che è “per nulla diverso dal sogno, dall’allucinazione, dall’illusione”.
In secondo luogo vi è la consapevolezza tutta paolina che dire di Cristo esige un metodo ed una chiarezza: “Meglio fallire che equivocare” scriverà nelle pagine di Studium negli anni Trenta, intravvedendo il pericolo della trasformazione dell’esperienza della Chiesa in “pseudo-chiesa”, piegata sul sentimentalismo, adattata alle esigenze del benessere esistenziale, tentata dagli infiniti slittamenti semantici che riducono la Parola alla sua caricatura, sempre piegata all’interesse del momento.
La Parola contro l’antiparola, il regno tanto amato dal demonio: Paolo VI, nell’incontro di Sidney con i giovani, affida loro la difesa della Parola, che è carne, che è storia, che è realtà. Ed è proprio la Parola, che diventa linguaggio, dopo la diagnosi e dopo il metodo, lo strumento principale, il terreno comune di incontro tra Cristo e l’uomo moderno.
Il linguaggio è per Montini parola, gesto e relazione: “I lontani spesso sono gente male impressionata da noi ministri della religione, perché la religione coincide per essi con la nostra persona. Sono spesso più esigenti che cattivi. Talora il loro anticlericalismo nasconde uno sdegnato rispetto alle cose sacre, che credono in noi avvilite. Ebbene, se è così, fratelli lontani, perdonateci”.
Così, rileggendo le pagine scelte da Vian, si rintraccia la grande lezione montiniana rispetto alla modernità: egli non sviluppa un progetto di riconquista, non accarezza un ritorno al passato, non elabora una strategia. La sua appare come una poetica. Una poetica dell’umano comprensibile a tutti. Nel 1967, a Fatima, Paolo VI sintetizzerà questa sua poetica in un’immagine che riassume l’intera sua visione antropologica: “Uomini, siate uomini”. Solo tale pienezza può essere totalmente libera e pronta per accogliere la Parola di Dio e l’esperienza dell’uomo di fede. Il resto è, appunto, pseudo.