Esisteva una scienza etnografica nel mondo antico? Se una scienza è tale in presenza di uno statuto epistemico saldo, nell’antichità non si potrebbe parlare, a rigore, di un’etnografia scientificamente intesa; eppure, l’esame che lo stoico Posidonio di Apamea (II-I sec. a. C.) riserva a usanze e modi di vita di diverse genti si avvicina molto allo statuto della moderna etnografia, tanto da farlo definire “il più grande antropologo dell’antichità” (Mazza).
Meritoria è quindi l’edizione, in bella traduzione, e nondimeno estremamente fedele al testo originale, dei Frammenti etnografici, curati da Miska Ruggeri, già autore de Posidonio e i Celti (Firenze 2000) e di Apollonio di Tiana. Il Gesù pagano (Milano 2014).
Nativo di Apamea, antica città regale dei Seleucidi, viaggiò lungamente, e per lungo tempo risiedette a Rodi, dove gli abitanti locali lo accolsero molto favorevolmente, nominandolo addirittura ambasciatore a Roma nell’87-86 a.C.: fu amico di Cicerone e probabilmente anche di Pompeo. Fu dunque uno degli ingegni più fertili e versatili del mondo antico: stoico, divenne celebre essenzialmente per l’opera storico-geografica e per i suoi interessi etnografici.
Visse infatti in un delicato snodo storico: il suo mondo era ormai segnato senza possibilità di ritorno dalla conquista romana; ma, rispetto a Polibio, suo predecessore, gran teorico della perfezione della costituzione romana (mista e quindi non soggetta a degenerazione), Posidonio intravede già la crisi, che si profila non più solo come problema militare, ma come problematica relativa, soprattutto, all’assetto economico-sociale, specialmente dopo le molte conquiste che hanno fatto affluire a Roma gigantesche quantità d’oro.
Polibio, a lungo ostaggio a Roma, per primo elaborò una storia universale che adottava una prospettiva unitaria, considerando come essa fosse diventata padrona del Mediterraneo. Posidonio, non essendo solo uno storico ma essenzialmente un filosofo, ha un diverso polo d’interesse. Non solo è diversa la forma mentis, ma anche il tempo in cui i due operano: cinquant’anni hanno determinato infatti cambiamenti radicali. Posidonio è sì un simpatizzante di Roma, ma il suo essere filoromano non si traduce in un’acritica adesione ai valori della classe dirigente, di cui intravede anzi la decadenza; il suo favore va decisamente al senato, mentre è molto più critico nei confronti dell’ordo equestris, che rappresenta l’arrivismo del nuovo, dei ceti rampanti, con la loro avidità e smania di potere.
Il suo interesse etnografico, oltre che nell’innata curiosità tipica del mondo greco, fin dai tempi di Omero, per popoli e usanze di vita diversi ed esotici, affonda le radici nella concezione filosofica dello stoicismo, che pone la sua attenzione sull’uomo, creatura posta teleologicamente al centro dell’universo. E se tutti gli uomini sono dotati di logos, scintilla di razionalità che è anche scintilla di divino, almeno in linea teorica sono tutti uguali: questo spiega l’interesse posidoniano per il tema tutto ellenistico della schiavitù, nonché per la tematica etnografica.
Quanto alla prima, Posidonio non arriva certo a sostenere la necessità dell’abolizione dell’istituto servile (del resto, nemmeno San Paolo lo farà): anzi, sostiene che è lecito e naturalissimo che quanti di per sé non sanno autogovernarsi si mettano sotto la protezione e la guida di chi è più saggio. Quanto alla seconda, Posidonio vive e scrive nel momento storico in cui le più disparate popolazioni entrano in contatto con Roma, per poi finire della sua orbita; e così si interessa a tutti i popoli che attorniano l’imperium romano, descrivendoli, sulla base di uno stereotipo geografico-morale di matrice platonica, che vede nel clima un elemento capace di incidere fortemente sul carattere dei popoli e di plasmarlo.
Ma l’Introduzione si sofferma — e forse questo è l’elemento più interessante — sul fatto che moltissimi frammenti di taglio etnografico di Posidonio hanno per oggetto le popolazioni del Nord, Celti e Germani, campo di studio ancora vergine a fine II-inizio I sec. a.C.
Per i Greci, la base più naturale per la conoscenza dei Celti sarebbe stata Massalia, l’odierna Marsiglia, fondata dai Focesi; ma, ricorda Ruggeri, i suoi abitanti molto raramente si occuparono di esplorare la Gallia interna; e, del resto, gli altri storici greci Eforo e Timeo non furono mai di persona sul territorio celtico. Posidonio, al contrario, scrive in quella tranquillità che, garantita dall’espansione romana, gli consentì verosimilmente di viaggiare dalla Narbonense all’Aquitania: lì studiò clima, paesaggio, abitanti, isolando alcune delle caratteristiche-tipo del popolo che abitava quelle terre.
Le sue osservazioni non si avvalgono di un metodo rivoluzionario (per esempio, non conosceva la linguistica comparata), ma sono comunque “puntuali, divertenti e colgono nel segno” (Ruggeri): e l’etnografia diventa la chiave eziologica per capire il comportamento di un popolo per mezzo dello studio del suo carattere. L’Oriente è in piena decadenza morale, ma nel carattere gallico, com’è tipico di una popolazione ancora non progredita e quindi non ancora corrotta, si mescolano semplicità, astuzia, combattività, coraggio, una certa dose di vanagloria e incostanza, e la propensione al bere; e poiché, nelle popolazioni ancora rimaste indietro — diremmo verghianamente — dalla “fiumana del progresso”, si possono rinvenire antichi stadi di sviluppo comuni alla storia di tutti i popoli, ai druidi l’Apamense dedica una speciale attenzione, perché in essi e nei loro ordinamenti vede le ultime vestigia di un passato remotissimo, e destinato presto a finire.
–
Posidonio, “Frammenti etnografici”, a cura di M. Ruggeri. Testo greco e latino a fronte, La Vita Felice, Milano 2016.