Il 5 aprile inaugura a Milano, presso lo SpazioBad, una piccola e preziosa collettiva di fotografia dal titolo “Per Milano: il giardino e la città”. Per l’occasione abbiamo intervistato il curatore, Marcello De Masi, che ne parla come di un lavoro nato “per dare un nome a ciò che avanza verso il nostro sguardo, farlo esistere. La poesia del dare un nome a ciò che è nato libero dalla nostra lingua”.
De Masi, docente di fotografia e fotografo egli stesso, è una delle anime del progetto culturale “Presente Infinito”, nato con il proposito di riunire un nucleo di fotografi non ancora quarantenni che da qualche anno condividono il proprio percorso, confrontandosi con autori di generazioni diverse dalla loro, nella profonda convinzione che il cammino dello sguardo sia qualcosa che debba essere condiviso e costantemente sottoposto ad un processo dialogico che genera nuova creazione. Con lui abbiamo parlato di “Per Milano”, ma anche di cosa significhino idee a lui molto care, come venire alla luce, o dare un nome a ciò che avanza, tra immagine e letteratura.
Marcello De Masi, perché il tema del giardino?
Sono vari i motivi per cui è stato proposto il tema del giardino; tra questi il fatto che avevo già in mente quali autori coinvolgere e sapevo già che a tutti interessava questo tema, che tutti si erano confrontati con questo mondo; con tutti loro (Giovanni Chiaramonte, Simone Casetta, Luigi Fiano e Lorenzo Martelli) c’è prima di tutto uno spirito ed un rapporto di amicizia profonda e vera, di condivisione e fratellanza, e quindi negli anni ci siamo confrontati sulle nostre strade e sul nostro modo di guardare al mondo e alla vita. Spesso ci siamo ritrovati a parlare del giardino, sotto tutti gli aspetti: e proprio il giardino sembrava il luogo intimo di riflessione culturale ed artistica nel quale fare incontrare queste diverse generazioni di autori, nati dal 1948 al 1987. E poi credo, senza presunzione o arroganza, che ci sia bisogno di riflettere sul giardino, perché sappiamo benissimo che non è solo il prato davanti a casa, o lo spazio verde di una città incastrato tra i palazzi. È molto di più, è un luogo, in prima istanza, ed è traccia dell’uomo, specchio del suo stare al mondo. Non a caso Gilles Clement ne parla in termini di recinto/paradiso.
Con che criterio hai selezionato le foto esposte?
Il criterio rispecchia un dialogo serrato con ognuno degli autori. Nel caso di Simone e Giovanni abbiamo lavorato sull’archivio, andando a scavare tra fotografie edite già in altri lavori, ma anche inedite, e da qui cercando di formare insieme delle sequenze che potessero generare senso. A tutti gli autori ho detto come intendevo presentare l’idea di giardino e come volevo che ognuno di loro portasse la propria visione personale ed unica. Ho spiegato come intendevo allargare il senso del giardino al tema dell’opera dell’uomo, al suo tentativo di costruirsi un recinto, un paradiso, un mondo.
Luigi e Lorenzo hanno entrambi deciso di realizzare un lavoro ad hoc per questa mostra; volevano già da tempo confrontarsi con l’area geografica di Milano e hanno pensato che questa potesse essere l’occasione giusta per iniziare, quindi con loro ci siamo confrontati a partire dalle fasi di scatto, dalle visite ai luoghi della città, arrivando poi a lavorare sulla selezione delle immagini. Non c’è stato un criterio unico nella selezione, ma date delle linee culturali a partire dal testo che ho scritto per loro, con ogni autore c’è stato un dialogo diverso e con ognuno si sono potute scegliere le immagini.
Nelle tue linee guida parli del tema del giardino come luogo del venire alla luce…
Tu sai bene di cosa parlo se faccio riferimento — filosofico, forse — al senso di stupore dello stare al mondo: beh, questo c’è nelle immagini, nelle opere di questi autori. Stupore, meraviglia e ricerca di bellezza in qualsiasi esistenza, per quanto banale o apparentemente periferica possa sembrare. Questo c’è nelle parole “luogo del venire alla luce”, ma le mie parole qui non possano dire tutto. Il senso di questa espressione si può cogliere a pieno solo guardando le immagini. Posso aggiungere una cosa: si tratta di vere e proprie epifanie. Epifanie di luce, di bellezza, di vita; certo, questo non riguarda solo lo specifico delle immagini in mostra, ma in generale l’opera dei loro autori.
Mi dicevi che dall’esperienza estetica ti interessava creare uno spazio del pensiero, per contagio, dalle immagini. Com’è possibile, nella tua esperienza, passare da un hortus conclusus, da un recinto, all’apertura verso un infinito che sempre riaccade?
Anche se può sembrare paradossale, per me, come credo per molti altri, il passaggio e la vicinanza tra ciò che è finito, recintato, misurabile direi, con l’apertura verso l’infinito è praticamente naturale. L’alchimia che fa accadere questo credo sia nel modo con cui qualcosa di finito possa tendere all’infinito, o meglio nel modo in cui un autore presenta questo paradosso solo apparente, ma in realtà così naturale. Le nostre inquadrature, proprio come mezzo espressivo, sono i nostri primi giardini, hanno dei limiti ed ordinano il mondo, selezionando, escludendo e disponendo, eppure proprio tra quei quattro lati si sente la luce dell’infinito. Si interpella il mistero. Nel giardino la stessa cosa. Il limite, il misurabile quasi ci salva. Mi viene da ricordare una poesia di Umberto Fiori pubblicata nel volume realizzato con Giovanni Chiaramonte nel 2010, dal titolo L’Altro_nei Volti nei Luoghi: “Solo dove si posa/ (foglia, parete, polvere)/ la luce appare. // Lanciato nell’aperto senza confini/ il volo dello sguardo/ viene a mancare, è smarrito. //Ma – ecco: queste fattezze precise, /suo ostacolo infinito, suo destino,/ gli vengono incontro, lo salvano“.
Nella presentazione alla mostra citi un passaggio di Gilles Clement in cui egli auspica di potere, alla fine dello sguardo, dare un nome alle cose: “Insieme potremo soffermarci sulla semplicità di un fiore che brilla nella luce annunciando un frutto, una nuova avventura, un seme, quindi un’invenzione. Potremo disegnarlo e forse dargli un paesaggio. Potremmo addirittura dargli un nome. E allora esisterà”. In questa chiamata all’essere, come interviene la forma della fotografia?
La fotografia è una lingua, e soffermarci su qualcosa, su un determinato soggetto/oggetto può corrispondere all’affermare la sua esistenza, estrarlo dall’omogeneità, dargli valore. Alcune volte penso a Palomar di Calvino, che si interroga se il riflesso del sole sull’acqua esiste solo per l’occhio che lo può guardare: forse guardare davvero fa esistere l’oggetto/il soggetto della nostra attenzione. Anche solo questo atto ovviamente rispecchia tantissimo chi compie quest’azione, questa messa in forma: è sempre una duplice immagine. È appunto come dargli un nome, è testimonianza di un’attenzione, di una cura. Ma è un gesto il cui risultato tende a permanere. A superare il tempo. È una forma di interesse, “che in un istante spegne i nostri interessi/ e solo ne permette la sopravvivenza, alleviandoci/ della loro gravità per un momento senza tempo […]“, scrive Les Murray nel Primo saggio sull’interesse.
Che valore ha, nel clima culturale odierno, tentare un cortocircuito tra immagini diverse?
Cercare senso e creazione di pensiero nell’attrito e nel cortocircuito tra immagini diverse ha per me e per noi un valore enorme, perché il senso non è più presentato sotto la dittatura della superficie delle cose (dittatura dello spazio, dell’idolatria, dell’estetismo fine a se stesso), ma richiede il coinvolgimento di chi guarda, che, così, il senso lo deve trovare, addirittura talvolta creare. E proprio per questo le immagini invece si presentano con una lingua apparentemente semplice, per accogliere chi guarda e farlo immergere nella propria realtà così da svelarne la complessità; qui torniamo al discorso di prima, dell’infinito nel finito. E per questo nella mostra ci sono immagini che non sono direttamente collegabili al giardino, cioè dove un giardino non appare in maniera diretta, per esempio un’immagine di Chiaramonte in cui è raffigurato l’interno di un laboratorio dove si sta costruendo un modello della facciata del Duomo di Milano in legno, ma proprio comunicando con le altre immagini che si potranno vedere in mostra si può capire come si sta ragionando sull’opera dell’uomo, sull’arte, sulla capacità di trascendenza dello guardo dell’uomo a partire dal dato naturale, della ricerca di bellezza e del proprio recinto.
Ha ancora senso cercare, al di là di tutto quello che possiamo vedere, nella più piccola delle apparizioni, la bellezza? Che compito ha la fotografia oggi, per te?
La ricerca della bellezza non solo ha ancora senso ma è necessaria, davvero credo ci possa salvare, si deve cercare e si deve creare. Dire in poche parole che compito ha la fotografia oggi è davvero complesso. Però forse bisogna interrogarsi sul ruolo e sul compito dell’arte, e della cultura in generale: cioè accettare la fotografia come linguaggio d’arte, ed allora trascenderla, e riflettere sul compito dell’arte, perché più importante della lingua che si sceglie, dell’espressione, è l’uomo o la donna che c’è dietro, la mano che si muove nel tempo, l’occhio che scruta nel tempo, la coscienza di chi è al mondo. E per questo credo che l’arte sia necessaria come l’acqua.
Il poeta Seamus Heaney, nel suo discorso per il Nobel, parla della poesia come di una forma di riparazione. Si può dire altrettanto della fotografia?
Se si possa dire della fotografia quanto Heaney ha detto per la poesia…beh, credo proprio di sì, per quanto fino a qui ho cercato di dire, per quanto in passato ho scritto, per quanto ancora dovrò scrivere.
Che rapporto c’è — se c’è — tra questa mostra e l’esperienza di “Presente infinito”?
Se solo rileggo quanto ci stiamo dicendo, ed anche il testo che ho preparato per la mostra, capisco e comprendo che non solo c’è un nesso con l’esperienza di Presente Infinito, ma c’è continuità, c’è unità di percorso, al di là del fatto che in questa nuova avventura ci sono tre autori che facevano parte della mostra di Presente Infinito. Presente Infinito è anche un’Associazione culturale proprio per continuare l’azione culturale ed artistica nata dalla mostra omonima che c’è stata, ed anche quest’esposizione sul giardino fa parte di tale azione.
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“Per Milano: il giardino e la città” sarà visitabile dal 5 al 30 aprile allo SpazioBad, via san Marco 46/A. Per maggiori informazioni: www.spaziobad.it