Prima di salvare i siti archeologici di Palmira, in Siria, da nuove prevedibili distruzioni dettate dalla fisiologia della guerra nei paesi del Medio Oriente, occorre anzitutto salvare i principi basilari della conoscenza e dell’indagine scientifica. 

Finora, infatti, ogni indagine, ogni ricerca nei paesi in conflitto, per registrare, documentare e approfondire ciò che è stato distrutto del patrimonio storico-artistico, archeologico o etno-antropologico, si è sempre mossa con molta, avventurosa, pionieristica approssimazione da parte di gruppi di archeologici ed esperti, sicuramente competenti in materia, sicuramente già consapevoli di missioni di scavo o di ricerca precedenti, ma del tutto sprovvisti di un’organizzazione, di un’istituzione internazionale alle spalle, che sia pronta a recuperare quei dati, valutarli, metterli a confronto con molte altre variabili: il tessuto sociale del territorio e dei paesi circostanti, le dinamiche politico-religiose delle terre di riferimento, le valutazioni del contrabbando di antichità che partono da quei luoghi per innervare le case d’asta e le vetrine online in Europa, Russia e Stati Uniti, il riciclaggio di soldi tramite commercio dei reperti antichi trafugati dai musei e dai siti archeologici mediorientali e africani, facenti stazione a Beirut in Libano e poi in partenza per i porti atlantici. Insomma finora ci muoviamo con molte buone intenzioni in difesa del patrimonio culturale siriano e iracheno, ma con molta inevitabile approssimazione. 



E’ vero che, dopo gli abbattimenti violenti del califfato di Al Baghdadi e adesso con la riconquista delle rovine archeologiche da parte delle truppe (certamente non francescane o innocue) del presidente siriano Bashar al Assad, un gruppo di professori dell’Università di Milano, in collaborazione con la Direzione delle Antichità e dei Musei di Damasco, sta studiando un piano per monitorare quanto è stato distrutto o salvato nel quartiere sud occidentale di Palmira.  



E’ vero, come scrive l’archeologo e scopritore dell’antica città di Ebla, Paolo Matthiae, su Repubblica (30 marzo 2016), che si “apre uno scenario nuovo e complesso nella prospettiva del restauro, della ricostruzione e della rinascita delle opere, dei monumenti, del museo della spettacolare perla del deserto” e che, così come “è stato fatto, dopo i disastri della seconda guerra mondiale, al centro monumentale di Dresda e al Peterhof presso San Pietroburgo, ma anche a Montecassino e a San Lorenzo a Roma” è forse auspicabile la ricostruzione affinché si restituisca “al civilissimo popolo della Siria quanto la barbarie fondamentalista dell’Isis ha voluto sottrargli”.   



E’ vero che, secondo l’archeologa Maria Teresa Grassi, sentita sul Corriere della Sera (29 marzo 2016), è possibile ricostruire con una grande stampante 3D i monumenti distrutti di Palmira; così come è vero che l’azienda di robotica “Tor Art” si è detta disponibile a riprodurre, in copia perfetta, l’arco del Tempio di Bel, seppur in scala ridotta, con la risposta scettica dell’archeologo Andrea Carandini su Repubblica.it (30 marzo 2016), secondo il quale si può riedificare una rovina soltanto se era stata già prima ben rilevata tridimensionalmente, con nuvole di punti.

Ma che cosa testimoniano tutti questi progetti, proposte, intuizioni, discussioni, appassionati slanci di monitoraggio e di ricerca? Testimoniano tutto il primitivismo culturale che investe ancora la gestione internazionale dei luoghi d’arte e di storia ritenuti di fondamentale importanza per l’evoluzione dei popoli.         

Ciò che manca, a livello internazionale, per rendere credibili queste ricerche, è proprio un’istituzione riconosciuta e preposta, quotidianamente impegnata nel prima, nel durante e nel dopo, a monitorare e studiare che cosa poter fare e come reagire quando un conflitto armato distrugge luoghi o architetture o manufatti di importanza ritenuta fondativa. 

Non è dunque tanto importante decidere (e poi chi decide? a nome di chi? con quale legittimazione scientifica o democratica?) se le rovine di Palmira debbano essere ripristinate come è avvenuto, dopo la seconda guerra mondiale, con varie architetture di Varsavia, Berlino o Pisa. Non è tanto importante discutere sulla necessità o meno del restauro o del ripristino dei siti archeologici siriani colpiti dal conflitto armato (ammesso che sia possibile).

Più importante è progredire, con discussioni, approfondimenti, libri, letterature che ancora mancano, per capire quali strumenti culturali, concettuali, giuridici, politici, militari, ci dotiamo per affrontare il grande quesito della persistenza delle memorie storiche e artistiche, che non può essere imposta ai popoli, ma che non può essere neppure, a cuor leggero, ignorata.

Dunque è necessaria la lenta attuazione di un’istituzione internazionale, che non può essere l’Unesco, che non possono essere i generici “caschi blu dell’Onu”, che elabori una politica culturale, giuridica e militare, il più possibile condivisa tra i vari Stati che vogliono sottoscriverla. E’ una strada ancora tutta ignota, mai sperimentata, le cui insidie e difficoltà sono evidentissime anche a chi qui ne scrive. Ad esempio, questa istituzionale sovranazionale impegnata in questo specifico e amplissimo compito, a quale legislazione risponde? Visto che manca ancora una normativa internazionale approvata dagli Stati membri dell’Onu, a quale legge si sottopone? Quali articoli giuridici applica? A quale autorità è vincolata? Quali sono i suoi confini? Quali sono i suoi reali strumenti di azione? 

Nel 1903 lo studioso Alois Riegl, ricevendo l’incarico di riorganizzare la tutela pubblica del patrimonio austriaco per conto della Presidenza dell’Imperial-Regia Commissione Centrale, pubblicò il noto Progetto di un’organizzazione legislativa della tutela dei monumenti in Austria, la cui straordinaria introduzione, dal titolo Il culto moderno dei monumenti, è chiarificatrice in merito: “il senso e il significato dei monumenti non dipendono dalla loro destinazione originaria, ma siamo piuttosto noi, i soggetti moderni, che li attribuiamo a essi”.

Già, ma nel caso di Palmira, e domani di Baghdad, Kabul, Mosul, Sana’a, Samarcanda, il Cairo, chi è il “noi” che attribuisce senso (e dunque difesa, tutela e significato) ai monumenti? Noi europei? Noi americani? Noi russi? Noi siriani? Noi mediorientali? Noi a nome dell’umanità? Nel caso di Palmira chi è il “noi” legittimato ad occuparsene? Legittimato da chi e a nome di chi?

A queste domande brancoliamo ancora in un buio di incertezza e di mancanza di riflessione. Siamo cioè ancora in un territorio del pensiero storico-politico che non è stato ancora affrontato. Ed è questa la vera e difficilissima strada ancora da illuminare.


L’autore terrà questo intervento al convegno della Scuola Superiore della Magistratura, dal titolo “Patrimonio culturale e tutela penale”, a cui interverranno anche i professori Salvatore Settis, Tomaso Montanari, Sergio Luzzatto, Lorenzo Casini, Stefano Monti, Nicoletta Giorgi (6-8 aprile 2016, Villa Castel Pulci, Scandicci).