E improvvisamente, scrisse Pier Paolo Pasolini, avvenne «un genocidio». Erano gli anni Sessanta, e d’un tratto l’eterna, bellissima, luna, «col suo pallore misterioso», diventò troppo lenta rispetto all’«accendi e spegni» di un «semaforo con quel suo gialletto volgare». Troppo lenta, per resistere al gioco rapido delle pubblicità: «la notte durava venti secondi, e venti secondi il GNAC», ossia una parte dell’insegna luminosa sul tetto di fronte alla casa di Marcovaldo, che ogni venti secondi — racconta Calvino — faceva sbiadire il cielo. La vita della gente, di colpo, dopo qualche millennio, cambiò radicalmente: «Alle sei di sera la città cadeva in mano dei consumatori. Per tutta la giornata il gran daffare della popolazione produttiva era il produrre: producevano beni di consumo. A una cert’ora, come per lo scatto d’un interruttore, smettevano la produzione e, via!, si buttavano tutti a consumare».
Il benessere dei consumi trasformò anche l’Italia. Lo descrisse Calvino, e lo descrisse Pasolini: «Ci siamo sbagliati credendo che fosse / impossibile che gli uomini potessero cambiare / così in così poco tempo»: «e tutto per mille lire / di più nella saccoccia». Nel 1974, in dialetto friulano, Pasolini rimpiangeva «i paesi poveri, le nuvole e il frumento: / la casa scura, il fumo, le biciclette, gli aeroplani / che passano come tuoni: e i bambini che guardano, / la maniera di ridere che viene dal cuore, / gli occhi che guardandosi intorno ardono / di curiosità senza vergogna, di rispetto / senza paura. Io piango un mondo morto. / Ma io non sono morto, io che lo piango».
Gli occhi ardenti di curiosità diventarono una cosa di cui vergognarsi. Perché «la produzione non produce solo merce, produce insieme rapporti sociali, umanità. Il “nuovo modo di produzione” ha prodotto quindi una nuova umanità, ossia una “nuova cultura” modificando antropologicamente l’uomo». L’omologazione travolse l’Italia attraverso un nuovo potere, inafferrabile perché assolutamente diverso dal passato. Esso operava non sul piano ideologico ma su quello del vissuto: sapeva bene che un conto era ciò che ciascuno pensava «nella coscienza», e tutt’altro era ciò che realmente viveva «nell’esistenza». Aveva già trasformato concretamente la vita della gente, e le lasciava ancora lo spazio illusorio per qualche discussione ideologica. Riesce a tenere per settimane tutti gli italiani a scontrarsi per esempio sulle unioni civili, tanto sa come far gola, appena lo voglia, agli uni e agli altri attraverso quelle comodità borghesi che, in fondo, piacciono a entrambi.
Nel 1975, l’ultimo anno di Pasolini, divampava la polemica sull’aborto. Il 9 febbraio sul Corriere della Sera Italo Calvino aveva contestato «un’idea della “vita” e della “natura umana” come qualcosa che ha un senso e un valore in sé». Per lui «non si è essere umani per diritto naturale»: è solo la «collettività» a conferire valore all’«individuo». Ecco perché, per chi non ha le «possibilità morali e materiali», «abortire non è soltanto una triste necessità, ma una decisione altamente morale».
Passarono poche settimane, e sempre sul Corriere Pasolini rispose a Calvino e al coro dei progressisti: «l’essere incondizionatamente abortisti garantisce a chi lo è una patente di razionalità, illuminismo, modernità ecc.»; «sono però traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti una legalizzazione dell’omicidio». Forse Calvino non aveva capito, sottolineava Pasolini, che entrambi rischiavano di «essere superati da una storia reale che li ingiallisce di colpo». Qual è questa nuova situazione storica? Se in passato era comprensibile reagire a «false sacralità e falsi sentimenti», ora il nuovo potere edonistico vuole l’aborto perché «considera la vita degli altri un nulla e il proprio cuore come un muscolo». Si possono consumare le cose e si possono consumare le persone; anzi, si devono consumare: è un obbligo il benessere, ed è un obbligo «il coito».
È qui la radice della risposta di Pasolini e Calvino: in un mondo in cui, «come polli d’allevamento, gli italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere», occorre «rimettere sempre in discussione» i «vecchi argomenti di laici, illuministi, razionalisti», che ormai «fanno il gioco del potere». Il potere fagocita tanto le idee laiciste quanto le idee religiose, tanto sarà lui a fare la sintesi. Decide qual è l’argomento del contendere, decide che bisogna schierarsi, decide quali sono le due parti in cui schierarsi. Sembra Ciao Darwin, ed è invece il nostro mondo. In cui possiamo assistere, nel 1975 come nel 2016, a «un grande exploit televisivo proprio per l’inaugurazione dell’Anno Santo», solo perché sa come «ridurla a puro folclore»: dopo esserne servito, «il Potere reale non ha più bisogno della Chiesa».
Che però, ora che non ha più il ruolo che ha avuto per due millenni, proprio per questo motivo, ha un’occasione storica, secondo Pasolini: è l’occasione storica di chi è fuori dal potere. Qualcosa del genere capita nel romanzo di Calvino La giornata d’uno scrutatore: alla notizia della gravidanza della compagna, il protagonista subito si tranquillizza pensando che si trattava di «poca cosa»: «qualcosa che ancora non era e che quindi si poteva ricacciare nel nulla (da che punto in poi un essere è davvero un essere?), una potenzialità biologica, cieca (da che punto un essere umano è umano?)». Proprio in questi frangenti si imbatte nello spettacolo di carità delle suore del Cottolengo e di un padre che schiaccia le mandorle al figlio handicappato. Quell’incontro avrebbe potuto cambiarlo, e infatti, quando riprese a parlare con Lia si accorse di trovarsi «in un diverso stato d’animo». Perché certi incontri ti cambiano davvero. Già un’altra volta, a Calvino che polemizzava contro i fascisti, Pasolini aveva scritto che «forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso».
In qualche modo Pasolini si sbagliava: perché un «semplice incontro» non può bastare, se non gli si dà spazio, se si presume di imbrigliarlo nei propri schemi: di trasportarlo, cioè, dal piano del vissuto al piano dell’ideologia. Lo conferma lo scrutatore calviniano, che al telefono con la fidanzata «cominciò a farle un discorso che non c’entrava niente»: «Si sa come sono quei momenti in cui pare d’aver capito tutto: magari un momento dopo si cerca di definire quel che si è capito e tutto scappa».
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Il testo è stato preparato dall’autore in occasione della conferenza su “Calvino e Pasolini: la paura di avere un cuore”, tenuta ieri sera a Brescia nell’ambito del ciclo di incontri del “Mese letterario” 2016, a cura della Fondazione San Benedetto.