Su William Shakespeare, com’è noto, abbiamo pochissime certezze. Una è che morì il 23 aprile 1616 e che fu interrato nella chiesa parrocchiale di Stratford due giorni dopo. Ma ecco che, appena chiusa la tomba, cominciano le congetture. 

Tanto per cominciare, fatto assai strano, sulla lapide manca il nome, sostituito da un  semplicissimo epitaffio in versi che si dice sia stato scritto da lui stesso. Lui, che portò alle stelle i versi e i ritmi più raffinati, si congedò (forse) dal mondo con due distici popolari, una specie di filastrocca che chiunque avrebbe potuto comporre. Né dice nulla del defunto ma si rivolge piuttosto ai vivi. Traslitterata e modernizzata, suona così:



Good friend, for Jesus’ sake, forbear
To dig the dust enclosed here.
Blessed be the man that spares these stones
And cursed be he that moves my bones.

“Caro amico, per amor di Cristo, astieniti / dallo scavare la polvere qui racchiusa. / Sia benedetto l’uomo che risparmia queste pietre / e maledetto chi (ri)muove le mie ossa”.



Può darsi che il grande drammaturgo temesse, come nella scena del cimitero nell’Amleto, la dispersione dei suoi resti da parte di oscuri becchini: forse non voleva che il suo teschio fosse gettato in un angolo come quello di Yorick. E chi non vorrebbe rispettare le ultime volontà di un defunto, incorrendo, oltretutto, nella sua personale maledizione?

Coerentemente, e diversamente per quanto accadde per Dante, la tomba di Shakespeare non fu mai toccata in quattrocento anni. Forse. 

Giacché nell’Ottocento girava voce (ma ne giravano, sul Bardo dell’Avon, forse più di oggi) che fosse stata profanata e che qualcuno ne avesse trafugato il cranio, in seguito andato disperso. Possibile? È la domanda che si è posto Kevin Colls, project manager del centro archeologico dell’università dello Staffordshire. 



Ci dice Christopher Shea, corrispondente del New York Times, dopo aver sentito Colls al telefono, che nel 2010, mentre si stava occupando di scavi nel punto in cui un tempo sorgeva l’ultima dimora shakespeariana, egli fu avvicinato da un anziano ex-vicario parrocchiale che gli chiese di avviare indagini sulla tomba per capire meglio se la diceria fosse vera. Richiedere (e ottenere) i necessari permessi per condurre una semplice indagine con il radar richiese ben quattro anni. 

Le onde radio furono dunque passate attraverso il pavimento della chiesa. Questo l’esito: mentre la parte dei piedi mostra i segni tipici delle “tombe indisturbate” (tipo sacche d’aria che emergono con il progressivo sprofondamento della tomba), la parte della testa ha fornito indicazioni chiare che essa era davvero stata “disturbata”. Abbiamo dunque la possibilità, seppur non la certezza, che qualcosa sia effettivamente mancante.

Nel frattempo Colls si buttò alla ricerca di resoconti del presunto fattaccio. Ne trovò uno in una rivista di fine Ottocento dalla circolazione limitata. Si faceva un nome, un certo dottor Chambers, e una data, il 1794. Colls indagò più oltre e vide che molti dettagli quadravano davvero: rintracciò i nomi di chi si diceva lo avesse aiutato negli scavi, la profondità (realistica) a cui si diceva avessero scavato, le locande dove si diceva avessero alloggiato e così via, concludendo che “se il racconto è inventato, è incredibilmente accurato in tutti i particolari”.

Ma perché andare a scavare illegalmente in una chiesa e rischiare, oltre che la maledizione del defunto, anche l’arresto?

Per soldi, ovviamente. Colls aggiunge infatti che a fine Settecento il furto di crani “famosi” fu un fenomeno piuttosto esteso. Si era infatti agli albori di una nuova “scienza” (che ebbe poi il suo boom in epoca vittoriana), la frenologia, che riteneva di poter capire il funzionamento di una mente partendo dalla conformazione e dalla misura del cranio. Ovvio che quello di Shakespeare facesse gola. L’ipotesi si fa ancora più interessante al sapere che un certo benestante personaggio avesse offerto (pare) la consistente somma di trecento sterline per la testa del Bardo. E il personaggio altri non era che Horace Walpole (1717-1797), l’inventore del romanzo gotico e ammiratore di tutto ciò che secondo lui era “medievale” o quanto meno antico.

Ma, alla fine, il cranio c’è o non c’è? Questo, purtroppo, con il radar non si vede. L’idea migliore, dopo aver sollevato tutto questo polverone, sarebbe quella di andare a vedere per davvero e, per così dire, toccare con mano. Anche a costo di aspettare altri dieci anni per ottenerne l’autorizzazione. In fondo, l’epitaffio dice di “risparmiare queste pietre”, di non “scavare la polvere” e, al giorno d’oggi, la cosa si potrebbe benissimo fare senza rovinarle, che so, con un sondino. Quanto al non “(ri)muovere le [sue] ossa”, una semplice occhiatina si potrà dare, no?