Robert Zimmerman, al secolo Bob Dylan, non si sarebbe mai recato con la sua signora in via della Povertà se non avesse letto i Dubliners di James Joyce. 

L’antologia di racconti dello scrittore irlandese rappresenta, anche dal punto di vista stilistico, una ventata di innovazione che nasce dall’osservazione, dall’introspezione e dalla sperimentazione. Da questo punto di vista, Gente di Dublino è un’apologia del metodo nel novecento. Non c’è la corsa all’invenzione di uno stile ultimativo, nuovo, che mira a travolgere ciò che lo ha preceduto: la contesa intellettuale basata sul rinnovamento profondo, per la letteratura, sembra esaurirsi al XIX secolo. Quando il romanticismo si fa beffe della pretesa autosufficienza dell’illuminismo; quando il verismo e il realismo attaccano il romanticismo sul piano delle sue promesse ideali e provvidenziali; quando il decandentismo schiaffa in faccia ai neorazionalisti la tumultuosa esistenza della e nella dissipazione. 



Il novecento è un’altra storia: la pretesa di scardinare integralmente il vecchio diventa tema delle avanguardie; la cultura di massa necessita invece della sua costante rielaborazione e rimasticazione, come intuirà la Pop Art. 

Ma Gente di Dublino non fotografa soltanto un paesaggio di inizio Novecento. E’ piuttosto il prequel definitivo del secolo breve. Scritto nella prima decade del ventesimo secolo, e pubblicato nella seconda, racconta la paralisi della società europea, non solo di quella irlandese. E’ la stasi prima dell’abisso, è il galleggiamento prima del vortice del nuovo nazionalismo. E’ la disarticolazione che precede la corsa identitaria, proprio perché l’identità nel frattempo si è smarrita. 



Si tende a fare di James Joyce il paladino vittorioso dell’anticattolicità, ma purtroppo per lui è essenzialmente il paladino sconfitto dell’anticonformismo. Non ha in animo di prendere a cazzotti la dottrina, l’esegesi o la pastorale. Semmai, finisce incatenato al sentire dominante e la sua letteratura è tutta una lotta infruttuosa a cercare di ribellarsi. Non tanto il cattolicesimo irlandese, ma il convenzionalismo che si è nutrito di visioni premasticate della religione: questo è il demone con cui Joyce è in lotta. Varie speculazioni circondano poi il rapporto mai del tutto chiarito tra lo scrittore e l’ebraismo: il reticolato migrante ed erratico di quel popolo devono per lui suscitare lo stesso interesse empatico che ebbero Péguy e Chagall. L’uno per propensione umanitaria, in piena polemica antimodernista, l’altro per origini e innegabile visionarietà. E pure mai del tutto chiarito il rapporto con l’alcool: bevitore seriale, ma pacifico, se fanno notizia, nella sua biografia, le volte in cui il gomito alzato lo ha chiamato alla rissa — più subita che mossa. 



Gente di Dublino, a differenza del monumentale Ulisse, è una narrazione più dinamica, facilitata dalla struttura per racconti. Nei quali, paradossalmente, è l’immobilismo uno dei temi dominanti. Non così l’Ulisse, che è tutto dedicato alle peregrinazioni interiori del suo protagonista e l’immobilismo della fabula è la giusta mimesi della frenesia interiore dell’intreccio. 

Gente di Dublino, ancora, buon punto d’analisi dei rapporti tra il diritto e la letteratura: col suo paesaggio, forse privo di rivendicazioni politiche, fatto di indebitati, lavoratori sfruttati, lavoratori alienati, morbosità sentimentale di quartiere. Taccuino di aspirazioni stroncate e di illusioni a cui abboccare fino alla prossima sveglia (o alla prossima sbronza). In “Ivy Day in the Committee Room” l’improvvisato conciliabolo dei nazionalisti è l’istantanea di un’Europa con vista sul prossimo incendio; in “Counterparts” lo sfaccendato Farrington è soprattutto un uomo privo di libertà, perché a nulla crede di realmente autentico, nonostante il ghigno beffardo e i modi violenti. C’è poi il romantico struggimento adolescenziale di “Araby”, dove si piange per un piccolo dono non offerto a un’amata. Quasi si trattasse dell’Apollo di Prassitele a caccia di lucertoline. 

E il meraviglioso “A Painful Case”, dove i demoni di Joyce (e del secolo) sono tutti chiamati in causa: l’amore rinnegato, la capacità obbligante ed afflittiva della routine, il rifiuto della scommessa sull’Altro e, dulcis in fundo, l’inferno della bottiglia, che sballa, distoglie, promette evasione e offre galera e tomba. 

Dubliners non sono affatto finiti. Abitano nelle nostre città, nei nostri quartieri, nei nostri condomini. Nei nostri cuori, nei nostri pensieri.