Il sacrario militare di Cima Grappa ospita le spoglie di 22.910 soldati. 12.615 caduti italiani, 10.295 austroungarici. Di questi morti della Grande Guerra, quelli senza nome sono 20.332, cioè quasi la totalità, ma questa è un’altra triste storia, che pure meriterebbe di essere raccontata.
La tomba più famosa dell’intero sacrario, quella cui la pietas dei camminatori e dei turisti del centenario dedica maggiore attenzione, non è di un italiano, ma di un soldato ungherese, classe 1897, divenuto celebre per il nome che porta, inciso sul bronzo del loculo: Peter Pan. Il tono elegiaco di cui la Storia è talvolta capace sembra qui toccare il suo apice: l’eterno bambino dell’Isola che non c’è, che ostinatamente si rifiutava di crescere, ha un suo omonimo che è stato mandato a morire, forse a venti, forse a ventuno anni, a centinaia di chilometri da casa, restando ragazzo per sempre, inchiodato sulla soglia di una vita mai vissuta.
C’è una malinconica geografia della morte, che si snoda dal Pasubio a Redipuglia, e che oggi andrebbe rivisitata non solo alla luce del centenario del primo conflitto mondiale, ma in particolare alla luce dei fatti cupi che affliggono l’Europa, tanto alle sue periferie quanto nel suo cuore. Perché, se da un lato i confronti tra epoche e fatti lontani tra loro sono sempre scivolosi, dall’altro alcuni parallelismi inquietano nella loro imbarazzante similarità.
Ma parto dal generale: reputo il vago cosmopolitismo, l’universalismo della indifferenziazione culturale tanto pericoloso quanto gli estremismi nazionalistici. Non può esistere vera comunità europea se non si procede dall’iniziale riconoscimento e dalla valorizzazione delle identità linguistiche e storiche di ogni comunità nazionale. Non può esistere vera accoglienza dello straniero, migrante profugo clandestino, se non stabilisco con chiarezza e serenità quale sia la “casa comune” entro la quale sto ospitando chi di quella casa, fino al giorno prima, non era parte. E quindi sì, i confini, quando questi restino aperti, permeabili, una linea di comunicazione e non di chiusura, sono una bella cosa.
Perché i confini ci parlano tanto di noi quanto dell’altro, di chi sta al di là, come ci ricorda l’etimologia del termine, che nel prefisso cum richiama alla mente il fatto che il confine, per essere tale, ha bisogno della relazione, tant’è che la divinità che lo presiede è Giano bifronte. E parlando di cum-fini e di Giano a questo punto viene quasi naturale chiamare in causa il con-fronto, attività possibile solo quando hai davanti qualcuno con cui farti una bella chiacchierata.
Quindi, sperando che si colgano le ragioni profonde della mia affermazione, credo che l’Europa possa ripartire o ritrovarsi proprio nei propri confini. Vivendoli, indagandoli, interrogandoli. Ad esempio si scoprirebbero dei cimiteri, lungo il Piave (a Feltre, Quero, Pederobba), o sull’altopiano di Asiago, che ospitano, a fianco ai morti che non stupiscono, ossia quelli italiani e austroungarici, centinaia di giovani morti tedeschi, francesi, inglesi. Addirittura qualche cimitero musulmano per i reparti bosniaci sudditi di Francesco Giuseppe.
L’Europa si è ritrovata unita nella morte proprio sui confini lungo i quali più orrendamente si era combattuto.
E non credo passi inosservata la tremenda somiglianza tra i cimiteri dei morti senza nome dei viaggi della disperazione sulle coste siciliane, e i sacrari in cui dorme un triste sonno una generazione di ventenni condannata a una tomba anonima da una guerra combattuta nel peggiore dei modi, al di là che si fosse dalla parte di chi poi ha vinto o ha perso.
E’ apparsa amaramente ironica la “fortificazione” del Brennero organizzata dall’Austria in pieno centenario della Grande Guerra: l’estrema dimostrazione che la Storia a volte è una vecchia suocera, che blatera i suoi moniti per restare inascoltata, o peggio vituperata.
Ironia doppiamente amara, perché l’atto di chiusura più rumoroso di questi ultimi mesi d’Europa di filo spinato e di sbarre abbassate è venuto da quell’Austria mitteleuropea, multilingue, multietnica e multireligiosa che sotto le aquile degli Asburgo pareva per certi aspetti aver profetizzato, a cavallo tra Otto e Novecento, alcuni tratti dell’Europa unita di là da venire. In tal senso, non credo vada dimenticato che uno dei padri dell’Europa, Alcide De Gasperi, iniziò la sua carriera politica nelle file dei popolari, nel parlamento viennese nel 1911.
Ma questi nomi, e questi morti, lontani da noi già un secolo, possono anche sembrare parte di un mondo che non è più, difficile da capire e da recuperare perché, oltretutto, tra noi e loro giace la mole scomoda dell’Europa dei totalitarismi, e del ventennio fascista in Italia. Eppure a scavare nella memoria recente ecco che ci vengono incontro altri morti e, in qualche modo, altre guerre, più difficili perché guerre sporche, non riconosciute, non consacrate nel lavacro santificante della memoria patria ufficiale. In una località sconosciuta talvolta anche ai frequentatori assidui delle Dolomiti, Sega Digon (siamo nel Comelico, in provincia di Belluno), lungo una valle che conduce fino al Col Quaternà, e da lì lungo una magnifica altavia che corre lungo il confine italo-austriaco, sorge, in una radura immersa in un bosco di conifere, la cappella in memoria dei caduti di Cima Vallona. Il 25 giugno 1967, dopo una prima esplosione che aveva demolito un traliccio dell’alta tensione, due bombe piazzate lungo l’unico sentiero di accesso alla zona dell’attentato investirono i militari italiani inviati sul posto per gli accertamenti del caso. Tre di loro rimasero uccisi sul colpo, uno morì dopo ore di agonia per le ferite, un altro rimase gravemente ferito.
L’eccidio di Cima Vallona segna l’apice della violenza della cosiddetta “guerra dei tralicci”, condotta dai nuclei terroristici del Bas (Comitato per la liberazione del Sudtirolo).
Andrà ricordato che la fine di questa guerra dimenticata viene dai più ricollegata alla definitiva approvazione, nel 1969, del cosiddetto “Pacchetto Moro”, che diede il via, nel 1972, all’esperienza, tutt’ora in vigore, della Provincia autonoma di Bolzano.
Andrà inoltre ricordato che alcuni dei terroristi separatisti condannati dalla magistratura italiana non vennero mai arrestati, avendo trovato rifugio in Austria e Germania, dove alcuni di loro ancora oggi vivono. Uno di questi, condannato per la strage di Cima Vallona, continua in Germania la sua attività politica.
Andrà ricordato che in un comune della provincia di Bolzano una via è stata intitolata al terrorista Sepp Kerschbaumer, fondatore dei Bas nel 1956.
Andrà, infine, ricordato, che nei pressi degli ordigni che uccisero i quattro militari italiani furono ritrovate delle tavolette di legno, che riportavano questa scritta: “Voi non dovrete avere mai più la barriera di confine al Brennero. Prima dovete ancora scavarvi la fossa nella nostra terra”.
È purtroppo facile indignarsi perché nascono le barriere lungo i nostri confini, perché l’Europa sembra rinnegare se stessa, (ri)gettandosi nei populismi e nei nazionalismi violenti. La verità della storia, nella sua dolorosa semplicità, è forse un’altra, e tutti questi morti, che popolano silenziosi le Alpi orientali, sembrano volercela indicare: non siamo ciò che siamo una volta per sempre. Non basta un trattato o una moneta unica per darci un’identità indelebile. Siamo ciò che siamo perché giorno dopo giorno abbracciamo determinati valori e non ascoltiamo le voci inconfessabili del nostro passato. Siamo ciò che siamo perché ogni giorno vogliamo esserlo, e agiamo per esserlo. E quindi basta non volere più l’Europa, perché questa venga meno.
Solo le tombe non cambiano.
(Primo di due articoli)