«Aprire un libro, o recarsi a incontrare un’opera d’arte, a volte, è come salire al monte Tabor per assistere, testimoni e partecipi, alla trasfigurazione di ciò che ci è noto. Riceviamo un invito, per vie misteriose: qualcosa ci attrae verso quel luogo. Colui che ci accompagna ci è amico: lo conosciamo. Trasfigurandosi davanti a noi, ci mostrerà non solo la propria realtà autentica, ma anche la nostra stessa vita, svelandocene il mistero. La luce che emana da lui investirà anche noi: ci aiuterà a comprenderci; nel suo fulgore inaspettato, cambierà la nostra vita per sempre».
Perché nessuno mai ci pensa, ma i grandi artisti, prima di divenire tali nel marchio della memoria postuma, vivono e lavorano affianco a noi, come noi immersi tante volte nelle ambasce dei giorni e nelle angosce del domani. E sono grandi non perché un comitato ne certifichi in fine vita gli esiti artistici e culturali, ma per quella quasi involontaria peculiarità di desiderio che li investe, per cui loro non guardano un quadro, ma «si recano a incontrare un’opera»; e da quell’opera che vanno a incontrare sono disposti, anzi desiderosi, di farsi cambiare, speranzosi che quell’opera «nel suo fulgore inaspettato, cambierà la nostra vita per sempre».
Lorenzo Gobbi è uno di questi artisti nascosti. Ed è per incontrare a nostra volta un uomo del genere, e di godere delle sue allegre battaglie con l’opera di Chagall, che vale la pena di leggere L’albero coricato (Castelvecchi, 174pp., 20 euro), di cui qui sopra ho riportato il primo capoverso. Gobbi è quel che di meglio ci si può aspettare da un intellettuale di razza: poliedrico, nel senso di non specialista, ma fondatissimo e coltissimo in tutti i campi che attraversa. Dalla poesia, di cui è autore fine ed elegante (si veda la sua opera omnia La gioia è un turbine di quiete, ATì, 246pp., 18 euro), alle filastrocche per bambini, le traduzioni dal tedesco di autori come Celan, fino alle traduzioni dall’ebraico e agli studi filosofico-letterari sulle culture hassidica e yiddish e sulle loro persistenze nella cultura europea. Il tutto praticato e offerto dall’interno di una vita coniugale di cui è struggente sentirlo parlare — tanta è la gratitudine che ne porta — e di un lavoro da insegnante di scuola media.
Una poliedricità che rifuggendo lo specialismo lo mette al riparo dal rischio di vivisezionare le opere che affronta, ponendolo invece in ascolto costante. Ed è così, ci racconta nella premessa, che all’inizio degli anni Ottanta per la prima volta incontra Chagall, restando «affascinato dal senso di gioia che ne promanava» (p. 11). Tempi, i tempi di questo primo incontro, in cui «la stima per la vita era molto bassa», e l’artista ancora presentato secondo il cliché di «colui che scardinava le certezze della società e della cultura, sovvertendo il mondo conosciuto e abbandonandoci inquieti al vuoto insensato del grigiore quotidiano, senza alcuna possibilità di salvezza».
Tempi così, ma anche tempi in cui l’allora adolescente Gobbi, continua la premessa, vede nei quadri di Chagall qualcosa che sembra «parlare di tutt’altro: tenerezza, fiducia, gioia di vivere, sogno, levità». Tutto un sogno naïf, quindi? No. Perché in quei quadri c’erano anche «esilio, lutto, ricordo, infanzia e musica sapiente».
«Li ammiravo senza capirli», scrive ancora Gobbi, narrando a larghe falcate come da questa prima ammirazione necessaria si sia instaurata un’amicizia vera e reale tra lui e Chagall, fino all’incontro con le cinque tele del Cantico dei Cantici. Era la fine del millennio scorso, e in quelle tele sognanti non si vedeva «nulla d’irreale, anzi! Ciò che contemplavo era sempre più vero ai miei occhi, più vivo, più concreto e personale […] Non sognavo affatto: rivivevo il passato, benedicevo il presente e mi proiettavo verso il futuro; abbracciavo con convinzione il divenire e lodavo Dio» (p. 14). E se a qualcuno potrebbe sembrare sufficiente un’esperienza estetica così per sentirsi in diritto o persino in dovere di parlarne, a Gobbi — e questo è un segno della sua cifra umana e intellettuale — no: o almeno, non è l’interesse primario. Questo libro nasce infatti da un dialogo ulteriore lungo e meditato: «lasciai che quelle cinque tele abitassero in me, nell’intimo. Intanto, insegnavo, leggevo, studiavo, scrivevo — e vivevo, soprattutto: con passione e dedizione, senza risparmiarmi, nella scuola e nella famiglia», finché «dopo quasi quindici anni di appunti e riflessioni, cominciai a riordinare le idee in questo libro».
Un libro che si offre prezioso e — mi scappa di dirlo — indispensabile nella puntualità delle fonti e ancor più, molto di più, nel metodo e nel fine. Quello di offrirci, tentando di «renderne ragione» (p. 15), un modo necessario, il solo vivificante forse, di accostare e condividere l’arte: «ogni uomo ripercorre le vie dei suoi dèi, dei quali è consanguineo, guidato da canti antichissimi nuovamente pronunciati, e conosce così la sua terra, percorrendola in una vita che appartiene a lui personalmente e insieme al suo gruppo familiare, ma anche al divino e al cosmo. Senza quei canti, senza quei racconti, la terra gli sarebbe estranea, ed egli non saprebbe più decodificare nulla: né il mondo né i giorni gli apparterrebbero più» (p.17).
È perché questi canti e questi racconti continuino ad appartenerci e ci aiutino ad appartenere a noi stessi che Gobbi ha scritto questo libro. Ed è per non sprecare questo regalo prezioso, questa preziosa possibilità di essere più vicini a noi stessi, che bisogna leggerlo e ringraziare chi l’ha scritto.