Nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del premio Carlo Magno, alla presenza delle più alte cariche istituzionali dell’Unione, Papa Francesco ha sollecitato i leaders europei ad “accettare con determinazione la sfida di ‘aggiornare’ l’idea di Europa“. A tal fine ha invitato a ripensare l’Europa a partire dalla memoria dei padri fondatori, lasciandosi ispirare dalla loro capacità di guardare lontano e di “cercare strade alternative, innovative (…). Essi — infatti — ebbero l’audacia non solo di sognare l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione“.



Ma il Papa non ha citato soltanto Adenauer, De Gasperi e Schuman, che sono universalmente riconosciuti tra i padri fondatori dell’Europa. Ha evocato anche, significativamente, il gesuita polacco Erich Przywara e la sua “magnifica opera, L’idea di Europa“, edita la prima volta nel 1955 e da non molto pubblicata anche in italiano (Il pozzo di Giacobbe, 2013). 



Pur a distanza di tanti anni, la riflessione di Przywara è ancora estremamente attuale e si segnala per molteplici profili di interesse. Tre, in particolare, meritano qui di essere sottolineati.

Il primo riguarda i fondamenti dell’Europa. Nella sua riflessione, infatti, Przywara percepisce con notevole lungimiranza il rischio sotteso alla costruzione di un’Europa che sia puramente strumentale a fini politici, economici e militari. Egli avverte l’urgenza di accompagnare tale processo di costruzione  con la ricerca di una idea di Europa. Il suo tentativo, tuttavia, non vuole rappresentare un nuovo progetto, alternativo a quelli esistenti. Przywara propone piuttosto una fenomenologia dell’Europa, cioè quanto è visibile a partire dalle matrici, dalle radici e dalle sorgenti dell’Europa. La storia ha dimostrato che Przywara non aveva torto: la sottovalutazione della ricerca delle “matrici” unitamente alla progressiva accentuazione degli aspetti tecno-burocratici dell’Europa, infatti, hanno finito per marginalizzare a tutti i livelli il formarsi dell’autocoscienza di un “noi” europeo. Forse non è troppo tardi per raccogliere l’invito di Przywara (e di papa Francesco) a ripensare l’Europa. Ma per questo c’è bisogno di uomini audaci e umili allo stesso tempo, capaci di riscoprire e di far vivere la sua anima.



Il secondo aspetto è rappresentato dalla concezione della politica. Per Przywara, infatti, la politica è innanzitutto una mentalità, ossia un modo di pensare e di agire “al servizio della città e per la città“, concepita come un bene più grande, eccedente la somma delle singole parti. Quanto poco diffuso sia questo modo di pensare all’unica città che è l’Europa è sotto gli occhi di tutti: basta guardare la crisi della Grecia o quella dei migranti per rendersene conto. 

Tuttavia, “per una nuova Europa politica vale un’alternativa stretta. O le nazioni, che per i loro interessi si sono separati dall’unica città dell’occidente, rinnovano questa unica città (…) assumendo un corrispondente modo di pensare a tale unica città. Oppure tali nazioni negozieranno, come mercanti, un equilibrio in base alla convergenza di interessi differenti, in maniera tale che quella alleanza di mercato, sarà l’unica «città dell’occidente» con sempre nuove contrattazioni. Questo significa però intendere la città come un «mercato», nel quale astuti mercanti cercano di imbrogliarsi gli uni gli altri, così che l’ansia di profitto diventerebbe il vero contenuto della politica, il vero servizio della città e il vero modo di pensare alla città“. A distanza di oltre sessant’anni questa alternativa è più attuale che mai. Se si vuole scongiurare il rischio di trasformare la città in un mercato occorre, perciò, una riabilitazione della politica ed una riscoperta di essa nella sua dimensione più profonda e autentica.

Il terzo motivo di interesse, infine, riguarda il contributo dei cristiani. Przywara passa criticamente in rassegna tutti i tentativi con cui — da Costantino ai moderni partiti — i cristiani hanno cercato di edificare una “società cristiana”, una sorta di attuazione del Regno di Dio sulla terra. Tutti questi tentativi, però, sono per Przywara versioni diverse di una “nuova antica alleanza“, cioè di un modo di concepire se stessi come “popolo eletto”, inteso come entità chiusa ed escludente che si contrappone a chi è fuori e non appartiene ad esso. Al contrario — per il teologo polacco — “sia l’Israele dell’Antico testamento, sia l’Israele di Dio del Nuovo Testamento, sono unicamente «strumenti» eletti da Dio per uscire dalla propria terra e dalla propria parentela, sempre di nuovo“. Per questo i cristiani, in quanto membra di Cristo, devono “uscire fuori dall’accampamento” e mettersi a servire un “mondo senza Cristo e senza Dio“, ossia — con le parole di Papa Francesco — “andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante“. 

Ancora una volta si tratta di una proposta audace che, come cristiani, potremo cogliere nella misura in cui noi per primi facciamo l’esperienza di essere abbracciati nelle nostre ferite. Non si può dare, infatti, se non quello che si riceve. E darlo significa in ultima istanza rifletterlo.