Il linguaggio dei mistici vive dell’eccesso così come eccessivo è ciò che vogliono conoscere.
I mistici vivono la grande contraddizione dovuta all’oggetto del loro discorso che è in sé non dicibile. La parola riesce a toccare l’indicibile e dunque il mistico cerca il repertorio del suo discorso non nel linguaggio astratto della speculazione ma nel linguaggio concreto dell’esperienza.
L’idea dell’esperienza e dell’indicibilità del linguaggio andranno sempre assieme nei mistici, non diversamente da quanto accadrà nei romantici tedeschi come Novalis. Santa Teresa dirà spesso: “questo lo so per esperienza” o “mi può capire chi ne ha avuto una qualche esperienza”. L’esperienza sarà la via per la lotta dei mistici con il linguaggio, contro quella che Jorge Guillen chiamava “l’insufficienza del linguaggio”. Dall’esperienza nasce la necessità di un linguaggio che abbia una condizione nuova che rompa i piani consueti della percezione prospettando una visione della realtà dall’interno del soggetto fino all’infinito dove si colloca Dio.
Nella mistica, come nella poesia romantica, per comunicare la difficoltà di esprimere l’ineffabile, l’indicibile, si ricorre all’accumulazione di piani. Sul piano linguistico si hanno strutture che si basano sull’unione di contrari, paradossi, ossimori. Ad esempio “vivo senza vivere in me” o “raggio di tenebre ” dello Pseudo Dionigi o il “sonno vigilante” di San Gregorio di Nissa. L’unione dei contrari è il risultato della ricerca di un linguaggio nuovo che permette di contemplare una nuova realtà, una realtà in cui le parole rompono il loro ordine logico.
Una rottura assolutamente originale che inaugura un’estetica dello svuotamento, dello smarrimento, dell’oscurità. San Gregorio di Nissa ha insegnato che “la vera conoscenza di Dio consiste nel comprendere che è incomprensibile, avvolti da tutte le parti, come in una nebbia, dalla sua incomprensibilità”. Anche Gerhard Tersteegen, il mistico tedesco del secolo XVII, allude all’oscuro santuario e l’oscurità, concetto su cui insiste tutta la mistica, ha a che fare con l’infinito.
Gli uomini, scriverà Wittgenstein, hanno l’impulso di gettarsi contro i limiti del linguaggio. Tale impulso porta il mistico a cercare di tradurre nel linguaggio che conosce qualcosa che comunque sempre gli appare intraducibile. Così se da un lato ritiene qualsiasi traduzione impossibile, dall’altro attinge a tutto ciò che può aiutarlo a tradurre. Interpretare il divino è possibile solo a patto di tradurlo in parole. Ma il linguaggio corrente è limitato e allora occorre attingere a tutte le lingue e a tutte le tradizioni che rigenerino quelle parole, diano loro un sapore nuovo. È la “lotta dei mistici con la lingua” di cui parlava Michel de Certeau (Fabula mistica, Bologna, Il Mulino 1987). Una lotta che tende a rompere le regole ordinarie forzando all’eccesso le strutture del discorso.
Questa idea la troviamo chiaramente esposta nell’introduzione che Diego del Gesù ha fatto alla prima edizione delle Obras espirituales, di Juan de la Cruz uscite ad Alcalà de Henares nel 1618. Diego scrive che il mistico può usare “termini imperfetti, impropri e diversi”, “viziosi per eccesso” e “abbassarsi a delle similitudini non decorose”. Questa diversità è la manifestazione della lotta interiore del mistico che è costretto a mostrare e non a dire, ma può mostrare solo dicendo. Juan de la Cruz sottolinea apertamente questo aspetto nel Prologo al Cantico spirituale dove indica le strane immagini e somiglianze, lo sproposito come cifre specifiche della sua parola ma anche come segni dell’esperienza mistica.
Le figure straordinarie sono il luogo della contraddizione. Il luogo in cui il linguaggio raggiunge un’altra temperatura perché riesce solo in questo modo a testimoniare l’esperienza del divino. È un modo di significare che permette di vedere in modo inattuale il mondo. Non è un caso che Juan de la Cruz predilige, per indicare il contatto con il divino, la metafora della “sobria ebrietas”. È una metafora antica. Possiamo farla risalire almeno a Filone di Alessandria che usa spesso l’ossimoro (De ebrietate 146-149; De fuga et inventione 166).
Le figure legate alla contraddizione mettono alla prova la comprensione e per questo sono alcune delle figure preferite da tutti i mistici. Producono uno schianto conoscitivo che rompe certezze definite e illumina le cose. Secondo questa tradizione le espressioni linguistiche che riguardano Dio sono destinate a diventare paradossali. Il paradosso crea una lacerazione perché mette a prova la pigrizia intellettuale, perché assume il rischio dell’assurdo per esprimere le nostre contraddizioni.
Questo portare il linguaggio alle estreme conseguenze si manifesta esemplarmente nell’uso che Juan de la Cruz fa della metafora. Metafora creatrice, che si apre all’abisso della alterità indicibile del divino. Una indicibilità a cui accennava lo Pseudo Dionigi. Scrive lo Pseudo Dionigi nel De divinis nominibus che Dio è, nella sua totale alterità, totalmente ineffabile. Ciò che più si avvicina alla sua comprensione è un vuoto privo di parole. Nessun nome può essere predicato di Dio che è al di là di ogni conoscenza razionale. Dunque ogni tentativo positivo di avvicinarsi a Dio è fallace. Unica via è quella di uno svuotamento totale di parole e pensieri che porti all’esperienza dell’unione.
Una unione che è anche sentire fisico di Dio, unione spirituale che implica una completa identità corporea. L’esperienza umana deve essere portata al limite per poter incontrare l’esperienza divina, è solo in questo processo creativo che Dio può manifestarsi.
Juan de la Cruz ha ben presente questa tradizione quando scrive nel prologo di Cantico spirituale:
“…perché lo Spirito del Signore che, dimorando in noi, viene in aiuto alla nostra debolezza, come dice San Paolo (Rom 8, 26) chiede per noi con gemiti inesprimibili quello che noi non possiamo ben intendere né comprendere chiaramente. Infatti, chi potrà scrivere quello che Egli fa intendere alle anime innamorate, presso cui dimora? E chi potrà manifestare con parole quello che fa sentire loro? Chi quello che fa loro desiderare? Certo, nessuno lo può, e non lo possono neppure le anime che Egli tocca. Questo è il motivo per cui con figure, comparazioni e similitudini, quelle anime fanno intendere qualcosa di quello che sentono e dall’abbondanza dello spirito versano segreti e misteri piuttosto che offrire una spiegazione razionale.
Il simbolo e le figure diventano allora il modo per mostrare un’esperienza che è l’unica alternativa al silenzio. Juan de la Cruz lo riconosce esplicitamente quando scrive che gli enunciati mistici non possono essere interpretati secondo una logica lineare perché quella sapienza non ha bisogno di essere compresa distintamente per suscitare un sentimento nell’anima.
È in questo senso che la poesia in Juan de la Cruz è interpretabile come un vero e proprio processo di traduzione dei significati consueti in linguaggio dell’esperienza, fatto di immagini e sensazioni non verbali. Si tratta di uno svuotamento della comunicazione ordinaria a favore di una comunicazione superiore e straordinaria. L’unica comunicazione possibile è quella per via negativa, ma questa può avvenire solo attraverso materiali che provengono da altri codici che non possono essere solo verbali e sono attinti dalla realtà. Questi possono tradursi verbalmente solo in simboli e metafore.
Un gettarsi appunto contro i limiti del linguaggio.