C’è un malinteso voyeurismo in chi pretende di interpretare la cifra stilistica di Frida Kahlo ricorrendo all’aneddotica sulle esperienze sessuali della pittrice messicana, vissuta tra il 1907 e il 1954. Altre chiavi di lettura ci si propongono non meno suggestive e probabilmente più importanti.
L’aspetto fisico della minuta artista latinoamericana non era certamente bello, eppure in nessuna foto quel volto e quei lineamenti perdono niente del loro smisurato decoro, della loro combattiva fierezza, persino della loro ieratica temperanza.
Più che l’estetica, perciò, era la salute ad avere gravemente minato il rapporto con la fisicità intesa nell’ambito più intimo del nostro agire: un grottesco incidente d’autobus nemmeno ventenne, la spina bifida scambiata per anni come forma singolare di poliomelite, un aggravarsi costante di strascichi mai risolti. A ciò si aggiunga che proprio per le sue cagionevoli condizioni di salute Frida Kahlo perse in gravidanza quel figlio cui si sarebbe attaccata perdutamente, non già per ingannare la propria disperazione, quanto per compimento della propria femminilità.
Tradita da un contesto sociale ancora patriarcale, da un ambiente artistico e letterario più maschilista delle apparenze, da una militanza politica che aveva vissuto con passione ma che quella stessa passione furente, giovane, innocente, persino libertaria, aveva dimostrato di non sapere riuscire a mantenere e a rispettare.
La pittura di Frida Kahlo non è materialismo slegato dalle illusioni spezzate; è anzi l’ostinata difesa dell’integrità e della purezza di quelle illusioni. Il tumultuoso compagno , Diego Rivera, pittore ben più osannato in vita e ben prima dimenticato nella memoria del grande pubblico non latinoamericano, pur essendo l’iniziatore di Frida alla militanza nel Partito Comunista, paradossalmente si dimostrò più pragmatico. I suoi soggetti non disdegnano l’esaltazione dell’assurdo, guizzi di surreale ridondanza, ma finiscono per virare verso i moduli più rassicuranti della pittura muralista e rivoluzionaria. Frida Kahlo no: continua a perseguire la struggente ricerca di quella dinamica insana che aveva instaurato con se stessa sin da ragazza e che mai la avrebbe abbandonata.
Non c’è spazio per dogmatismo alcuno, nemmeno per l’anticonvenzionalismo di convenzione, quello che esibisce uno stile di vita controculturale e strafottente come se si trattasse dell’unica divisa che ha saputo indossare. L’internazionalismo comunista persino per chi, come Frida, rischiava di abbracciarlo esclusivamente per reazione culturale e personale ad un clima soffocante come quello della borghesia prerivoluzionaria, non poteva esaurirsi nel rivendicare vagamente uno stile di vita libertino e fuori dai canoni dominanti. Doveva mettere in questione in primo luogo la propria stessa ipocrisia: non si capisce perché la partecipazione politica delle donne messicane passò per almeno un decennio attraverso i quadri delle organizzazioni socialiste, se non si affronta di petto questo problema.
Era l’unico modo possibile per dare almeno un’occasione di emergere a quella femminilità altrimenti schiacciata, vilipesa, costretta all’invisibilità della dimensione domestica (che poi molte di queste eroine femministe avrebbero, si, riscoperto, ma a partire dalla rivendicazione di una propria scelta esistenziale e non in nome di un codice colpevolmente imposto).
La storia ha smentito l’idea che il comunismo fosse solo di soviet ed elettricità; di certo, la felicità non è solo il surrealismo unito al socialismo. E questo lo dimostra acutamente la parabola pittorica di Frida Kahlo. Alcuni dipinti ci raccontano la complessità di questo travaglio.
Quasi intimo e familiare il tutt’altro che meramente dolce “Frida e Diego” – l’artista col mastodontico e corpulento marito. Fotografati, si direbbe, nell’atto di un passeggio quasi borghese, quell’amore tenuto insieme oltre i tradimenti e le blasfemie, che, però, proprio per questo per dimostrarsi davvero tale ha anche bisogno di potersi esibire nella quiete. Ancora: la mancata rielaborazione del lutto per il figlio perduto in gravidanza, in “Frida e l’aborto”, autoritratto visionario, come molti della pittrice, ma che è tutto tranne che egotismo travestito in metafore. Semmai, autentico dolore, autentico senso di angosciante perdita.
Quel permanente “Frida contro Frida” a cui in sostanza l’artista sudamericana dà un volto precisissimo: le “Due Frida”, che pur a mani giunte presidiano due angoli diversi del quadro, due mondi diversi dell’anima. La voglia di vivere e la disperazione della vita, il dolore del caso e la ragione della gioia: un incontro lacerante sancito da una forzosa stretta di mano.
Per non dire dell’Autoritratto sormontato da uno Stalin indifferente e abbarbicato al dominio del suo presentarsi come socialismo realizzato. Frida non visse abbastanza per vedere crollare, sotto i colpi delle proprie stesse contraddizioni, anche quel sogno, ma a dar retta alle biografie maggioritarie si legò, quasi per nemesi storica, anche allo sventurato Trockij. L’eroe mancato della Quarta Internazionale, scacciato e schiacciato dai sicari della Terza.
In tempi di ostentazione malsana di una presunta femminilità debordante, che altro non è che maschilismo rovesciato nel suo ludibrio, la pittura di Frida Kahlo è piuttosto l’antidoto della dannazione. E se forse la sua poetica ci appare non raramente più intensa e curata della sua pittura, è perché quella pittura affida alla nuda immagine pensata la fatica del proprio vivere: va decifrata, va corteggiata, va coltivata. Niente di più anacronistico e niente di più attuale.