Anticipiamo un estratto dell’ultimo libro di Salvatore Sechi, “La trattativa Stato-mafia sul carcere duro”, GoWare, 2016.

Secondo un pregiudizio i soli governi presieduti da Silvio Berlusconi sarebbero stati l’incarnazione, se non la continuazione, sotto altre spoglie, dei desideri e più specificamente degli interessi della mafia.



Il principale fu di considerarli responsabili di una politica di mancata contrapposizione ad essa con conseguenti insufficienti azioni di contrasto, e anzi dell’ossessiva ricerca di un’intesa. Per circa una ventina d’anni una parte dell’opinione pubblica e della stampa ha nutrito l’idea alimentata in maniera massiccia e pervasiva da la Repubblica e Micromega, un quotidiano e una rivista rigorosamente di tendenza, se per il primo non si vuole dire, con sussiego reverenziale, di partito.



Per i suoi direttori, Eugenio Scalfari (e soprattutto il suo successore a la Repubblica Ezio Mauro) e Paolo Flores d’Arcais (Micromega), attraverso le fortune elettorali e il molecolare controllo delle istituzioni da parte di Forza Italia, i boss si sarebbero fatti governo e Stato. Non avrebbero, quindi, avuto più bisogno di dedicarsi ad attività delittuose.

Cosa nostra avrebbe interrotto di botto le stragi seminate a Palermo, Roma, Milano e Firenze e soprattutto sarebbe stata annullata quella micidiale (affidata ai fratelli Graviano) da effettuare allo Stadio Olimpico di Roma. Lo avrebbe fatto quando sarebbe stata intavolata una trattativa (apparsa assai promettente e solida) con Berlusconi e Forza Italia che erano in procinto di impadronirsi del potere politico.



Per la verità, questo è quanto pensano in molti. Dagli ex presidenti della Repubblica Ciampi e Napolitano a magistrati autorevoli come il fiorentino Gabriele Chelazzi e il team di Antonio Ingroia fino a molti parlamentari (cito uno per tutti, Walter Veltroni), al procuratore antimafia Grasso e a boss di Cosa nostra, pentiti e no.

Anche ad avviso di noi consulenti, la ricerca di una sponda politica non è stata estranea alla mafia corleonese. 

Quella di Bontate e Badalamenti l’aveva trovata nel collegamento con Andreotti e nei rapporti continui, addirittura organici, dei fratelli Salvo e di Vito Ciancimino e indirettamente di Lima.

L’esigenza di cambiare spalla al fucile Riina e Provenzano l’avvertono nel momento in cui ha luogo lo sfarinamento della Prima Repubblica. Per loro coincide con un episodio impensabile, cioè l’uccisione di un personaggio assai influente come Ignazio Salvo, il 12 marzo 1992, nei pressi di Mondello, e l’avvio di un’intesa col nuovo Principe, cioè Silvio Berlusconi. Ma il tentativo di convergere su Forza Italia, oltreché su “Sicilia Libera” (una nuova formazione preferita da personaggi di primo piano dei clan come Bagarella e Gaspare Spatuzza) è rimasta un’ipotesi. Dalla magia sinuosa straordinaria, ma senza conferme.

In seno alla stessa Commissione Pisanu, martellante e argomentato è stato l’impegno a rintracciarla posto da un leader autorevole  come Walter Veltroni e, sul piano giudiziario, dal procuratore Antonio Ingroia (e dai suoi collaboratori). 

Ma i nuovi giudici fiorentini (dal procuratore capo Giuseppe Quattrocchi ai pm Giuseppe Nicolosi e Alessandro Crini) hanno nettamente negato che Forza Italia o Mediaset sia stato “mandante o ispiratrice delle  stragi” mafiose.

Il loro scopo sarebbe stato di far montare una reazione di destra contro la prospettiva di un’ascesa della sinistra al governo. Ma per i magistrati fiorentini è possibile che un canale di interlocuzione si fosse aperto con quel nuovo partito o anche solo con alcuni esponenti di rilievo.

In altre parole, non hanno escluso che la formazione politica di Berlusconi e Dell’Utri sia stata considerata da Cosa nostra “come una chance per affrancarsi dalla precedente classe dirigente in declino” e per collegarsi al nuovo partito o anche solo con alcuni suoi esponenti di rilievo.

L’uso della mafia stragista per sbarrare la strada a un governo di sinistra è stata prospettata a Quattrocchi e ai suoi colleghi dai parlamentari della Commissione nel corso della loro audizione. Ma il procuratore di Firenze è stato preciso nel tenersi lontano dal “fascino di ipotesi senza prove”. Le conclusioni alle quali era pervenuto non lasciano adito a dubbi: “dalle nostre indagini non risulta un negoziatore specifico” per saldare Cosa nostra a Berlusconi e Dell’Utri.

Non c’è, però, dubbio che per il pubblico ministero citato, come per il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso e l’ex presidente Ciampi, nelle stragi del 1992-1993 ci furono mandanti a volto coperto, agenti esterni. Bombe commissionate alla mafia da forze ipotizzate come pezzi (al solito “deviati”) dell’apparato dello Stato servirono a favorire, insieme alla destabilizzazione del paese, l’arrivo al potere di forze nuove come quelle raccolte nei consigli di amministrazione di Mediaset.

Questa traccia fu seguita dal pm fiorentino Chelazzi e da lui illustrata nell’audizione del 2 luglio 2002 a Palazzo San Macuto, presso la Commissione parlamentare antimafia. È da allora che il parlamento sa, è informato di una vicenda giudiziaria che il coraggioso magistrato nel 2002 definisce “unica e irripetibile, almeno nella storia repubblicana” e dalla “finalità eversiva”.

Non fece in tempo a fornire ai commissari e ai consulenti le carte che aveva promesso, perché nella notte tra il 16 e il 17 aprile del 2003 si accasciò. Lo aveva colpito a morte un infarto, a Roma, in via Sicilia nella foresteria della Guardia di Finanza.

Chelazzi aveva stabilito un collegamento tra le stragi del ’92-’93 scatenate dalla mafia e le nuove forze politiche che avrebbero ereditato il paese stremato da esse. Non ebbe purtroppo il tempo di munire la politica delle prove raccolte.

Ma la stessa riflessione è stata fatta da un altro autorevole magistrato, Piero Grasso, a Firenze, nel corso della commemorazione della strage di via Georgofili: “Le stragi mafiose del ’93 erano tese a causare disordine per dare la possibilità ad una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che veniva dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa nostra, attraverso questo programma di azioni criminali, che hanno cercato di incidere gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste. Non venne escluso che questa transizione potesse passare attraverso un vero e proprio colpo di Stato in piena regola. È quello che venne evocato dall’ex presidente Ciampi nel descrivere il trambusto, le paure di quelle ore e di quei giorni, consumate tra incertezze e vero e proprio terrore, con le linee telefoniche di Palazzo Chigi recise. (…) L’Italia in quel frangente rischiò il colpo di Stato”.

Parlando in Parlamento il 28 luglio formalizza, per così dire, questa sensazione: “È contro questa concreta prospettiva di uno Stato rinnovato che si è scatenata una torbida alleanza di forze che perseguono obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”.

Rievocando questo discorso col pm Chelazzi e con Pier Luigi Vigna, allora procuratore nazionale antimafia, il pur sempre prudente Ciampi non cambia opinione sul pericolo corso.

I pm fiorentini invitati da Pisanu alla Commissione hanno offerto delle precisazioni interessanti anche su altri aspetti. In primo luogo hanno negato che i nostri servizi di intelligence abbiano offerto qualche minimo contributo. In secondo luogo che l’obiettivo di Cosa nostra fosse di ottenere benefici per i boss detenuti. A loro avviso questa era solo la “parte minore della trattativa con lo Stato”. In terzo luogo che nella decisione dei fratelli Graviano di proseguire la stagione delle stragi, l’atto del ministro Conso, cioè “la revoca del 41bis era indifferente”.

Il pm Nicolosi ha recato una notazione interessante quando ha dichiarato: “Al Dap c’era la certezza assoluta che molti 41bis sarebbero stati revocati, la notte del 19 luglio ’92, perché erano stati dati a cani e porci, a tappeto”.

È, però, innegabile quanto in realtà è avvenuto, cioè che dopo il 1993 sia iniziata una sorta di diminuzione, se non di declino, della mattanza. Dura fino ad oggi.

Questo scemare della violenza e del terrorismo mafioso non è, però, da attribuire alla minore progressiva presa sulla società e sulle istituzioni dei partiti e dei governi di centrodestra.

Il pentito Giovanni Brusca, nella deposizione resa nell’aula bunker romana di Rebibbia, durante il processo contro il gen. Mario Mori accusato di favoreggiamento della mafia, ha formulato una testimonianza tagliente: “Berlusconi può essere accusato di tante altre cose, ma per le stragi del ’92-’93 non c’entra niente, non facciamolo diventare un martire. Veniva accusato anche di cose peggiori. Di tutto questo parlai con i miei cognati, Salvo e Rosario Cristiano. Ho querelato l’Espresso perché non ha rettificato una notizia falsa: io non sono mai andato da Berlusconi”.

Anche sentenze della magistratura, fino ai vertici della Corte di Cassazione, hanno stabilito che Silvio Berlusconi e lo stesso Marcello Dell’Utri hanno avuto interessi e scambi non occasionali, anzi permanenti, con Cosa nostra.

L’ex premier da molti anni versa ai boss una somma significativa perché proteggano i membri della sua famiglia. Dell’Utri ha, invece, avuto frequentazioni e forme di collaborazione meno volatili, anzi più organiche, anche indipendentemente dall’approvazione di Berlusconi. Da lui dal 2000 al 2012 ricevette versamenti per un totale di circa 40 milioni di euro.

Il giudice Ingroia su di esse non ha escluso che si sia potuto trattare di estorsioni effettuate da Dell’Utri “in proprio, ma anche su incarico di boss di Cosa nostra”. 

Sul top manager di Mediaset grava un’imputazione non ambigua: “È stato l’esattore e in qualche modo il cassiere di Cosa nostra, facendo da intermediario tra i boss e Berlusconi”.

C’è solo un inconveniente sul piano giuridico. Al pari di Giulio Andreotti non si è accertato finora che Berlusconi e Dell’Utri abbiano mai preso parte a trattative per far scemare la durezza del regime carcerario al quale i mafiosi erano stati condannati.

Allo stato dei fatti, cioè delle prove disponibili ai magistrati, non se ne occuparono. Né come rappresentanti dello Stato e del governo né per conto dei Corleonesi.