Caro direttore,
cinquant’anni fa Paolo VI comprese, con lungimiranza, che “la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale”. Nel 1967, alla luce del documento conciliare Gaudium et Spes, fece proprio “il grido d’angoscia” dei popoli che soffrono la fame, e con l’enciclica Populorum Progressio si prefisse di interpellare i popoli dell’opulenza nell’intento di “favorire un’azione concertata per lo sviluppo integrale dell’uomo e lo sviluppo solidale dell’umanità”. Nei decenni a seguire, ne prolungarono l’eco le encicliche Sollicitudo rei socialis di san Giovanni Paolo II e la Caritas in veritate di Benedetto XVI. Un anno fa, anche Papa Francesco ha fatto suo “il grido della terra, quanto il grido dei poveri” e con l’enciclica Laudato Si’ continua a provocare l’umanità in cammino verso l’unificazione.
Partendo da un problema reale qual è il “degrado ambientale”, Papa Francesco mette a fuoco più precisamente e più profondamente l’urgenza di un autentico sviluppo umano. Prendendo seriamente in considerazione la salvaguardia del pianeta — la “casa comune” — non riduce il discorso in modo ideologico ma lo sviluppa nella sua intima relazione con i poveri e con la povertà della terra, nella certezza che tutto è connesso. Infatti, come dice nell’enciclica, “non ci sarà una nuova relazione con la natura senza un essere umano nuovo. Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia […] Se la crisi ecologica è un emergere o una manifestazione esterna della crisi etica, culturale e spirituale della modernità, non possiamo illuderci di risanare la nostra relazione con la natura e l’ambiente senza risanare tutte le relazioni umane fondamentali” (Laudato Si’, 118-119).
Dopo un anno di riflessione, alla luce degli attentati terroristici di Parigi e Bruxelles — per citare solo quelli compiuti in Europa — si capisce che non c’è sfida più grande per l’umanità, oggi, che quella lanciata da Papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’. Si tratta di una sfida culturale, spirituale e educativa che richiede il contributo di tutti gli uomini e di tutte le istituzioni sociali. Una sfida che impegna, prima di tutto, noi cristiani, perché consapevoli che la strada per il cambiamento c’è. È una strada che i cristiani conoscono, si chiama Gesù Cristo. Essi non devono far altro che seguirlo nella sua Chiesa, perché, come dice Péguy, “C’era la cattiveria dei tempi anche sotto i Romani. Ma Gesù venne. Non perse i suoi anni a gemere e interpellare la cattiveria dei tempi. Tagliò corto. In un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo”.