Forse non tutti sanno che l’ecumenismo, ossia il movimento che spinge le varie chiese a riavvicinarsi dopo secoli di contrasti, ha avuto un impulso determinante da parte dei missionari. Costoro, infatti, trovandosi a testimoniare la stessa fede nel medesimo Signore Gesù di fronte a donne e uomini di altre religioni, sentirono per primi lo “scandalo” delle divisioni fra cristiani, che intrapresero dunque a superare. L’incontro fra Papa Francesco e l’Imam dell’Università Islamica di al-Azhar, Ahmed al Tayyib, mi ha fatto pensare a questo. In un mondo ormai disorientato e preda di ogni sorta di ingiustizie e pesino indicibili forme di violenza (talvolta perpetrate in nome di una distorta concezione della stessa religione e addirittura fra correligionari di diversa tendenza) è buono e giusto che esponenti di rilievo di due fedi tanto diffuse e influenti in ogni parte del pianeta si trovino fianco a fianco per dimostrare non soltanto la possibilità, ma la realtà del mutuo rispetto e della pacifica convivenza. 



Non si tratta, come alcuni paventano, di alcuna retrocessione dalla propria identità che si dovrebbe appannare per lasciar posto alle altre. E’ anzi un surplus di consapevolezza e di responsabilità che spinge a “intercedere” (cioè “mettersi in mezzo”) insieme, verso l’Unico Dio e a favore delle vittime più deboli e innocenti della follia dilagante, per dare un segnale inequivocabile, soprattutto durante lo straordinario Anno Santo della Misericordia che stiamo celebrando. 



Certo, questi gesti al vertice hanno un significato simbolico e pedagogico che si realizzerà solo quando  passeranno nella vita quotidiana dei comuni e semplici fedeli. Su questo siamo decisamente in ritardo. Solo a Milano i musulmani sono ornai circa 100mila. Nei mille oratori della diocesi il 25 per cento dei frequentanti son bimbi e bimbe di famiglie nordafricane e mediorientali. Alla doverosa opera di ospitalità e promozione umana non si affianca ancora, e dopo decenni, un’adeguata presa in carico di tale occasione — forse irripetibile — di comunanza di valori e scopi al servizio delle nuove generazioni. Analogo discorso si potrebbe fare per i luoghi di cura e di detenzione, nei quali la pluralità delle provenienze attende da tempo di essere gestita per il bene comune, non banalmente subita come un fastidioso evento atmosferico, presunto di passaggio…



Mi sovvengono ancora le opere dei missionari, ormai da circa un secolo presenti sull’altra sponda del Mediterraneo con scuole, ospedali, centri sociali di ogni tipo, frequentati prevalentemente da giovani musulmani che vi apprendono le lingue e le culture europee, talvolta a costo di gravi sacrifici. Possibile che fra queste realtà e la timida Europa in preda alla paura e al ripiegamento su se stessa, in difesa di sempre meno smaltati “privilegi”, nulla possa essere concepito e agito come ponte reale di vicinato e collaborazione? 

Ognuno si limita al suo mero compito, anche encomiabile, di servizio quotidiano, ma senza una prospettiva a medio-lungo termine e con obiettivi di comune interesse. Al solito, i peccati di omissione risultano i più devastanti. Non sarà certo l’eliminazione (come e a che prezzo?) dell’inevitabile opacità dell’agire umano a poterci salvare, ma una più decisa azione lungimirante e priva di riserve mentali. Un metodo squisitamente evangelico, che valorizza ogni particella di bene come un piccolo seme che può dar grandi frutti. Ma anche qualcosa di profondamente iscritto nella tradizione islamica, tanto avvilita dai suoi presunti esponenti che evidentemente dimenticano, o preferiscono non ascoltare, ciò che anche il Corano esprime a chiare lettere: “A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità Unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti tornerete, e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia” (5, 48).