Zac: “Lei è lì. Mi avvicino, mi giro, verifico se siamo soli. Questo momento è per noi. Un vetro ci separa. Mi schiaccio contro con tutto il peso. La nostra vita a due sfila davanti ai miei occhi”.
Pur dentro un obitorio di Parigi, è ancora la vita che presta il canovaccio, per non soccombere definitivamente: gli incontri sono sempre il cerimoniale dei giorni. Lei è Hélène Muyal, crivellata a colpi di Kalashnikov la sera del Bataclan, pieno centro di Parigi. Lui è Antoine Leiris, l’uomo che la follia ha reso vedovo, che stregò il web al suono di Non avrete il mio odio: gridato in faccia al terrore, ai terroristi. Al male divenuto paura folle: “Chiudere gli occhi di un defunto è restituirgli un po’ di vita” scrive nel suo libro. Vederla, poi, mi ha fatto bene, ci confida in un’intervista. L’ha voluta vedere, a tutti i costi, ma “adesso è ora di lasciarla”. La farà rivedere a Melvil, il piccolo rimasto orfano di madre, tutte le volte che vorrà.
L’uomo che sta seduto davanti a noi vive in uno scafandro di ghiaccio: lo sguardo è aguzzo, i gesti hanno picchi di vertigine, l’immobilità immobilizza ogni cosa che osi avvicinarsi, i rarissimi accenti di sorriso nascono già smunti. Quasi levigati da una pialla mastodontica.
Sono passati sei mesi da quella strage degli innocenti: lui è ancora immobile, come di chi, scalando una parete, viene colto da furia tempestosa. Si rimane immobili — di ghiaccio — per ripararsi dalla foga: “C’è una parte di me che racconto, quasi fosse un copione. L’altra è solo mia: mi permette di continuare a vivere”.
A questo punto occorrerebbe aver veduto, anche solo una volta, che faccia abbia la morte per capire come, certuni giorni, il ghiaccio sia una forma-alternativa di calore. Di colore. “Non so chi siate e non voglio saperlo. Se vi odiassi vi farei un regalo: è quello che cercate. Non avrete il mio odio. Non avrete nemmeno il suo odio (quello di Melvil)”.
I Kalashnikov hanno screpolato la cisterna d’amore: ciò che ne esce, misto a sangue, è acqua sorgiva: L’amore vince l’odio, la vendetta è disarmata dal perdono canta fiera la liturgia cristiana.
Non-odiare, però, non è perdonare: “Dire che non li odio non significa dire che li perdono. Troppo presto, troppo grande, troppo tutto. Il mio non-odiare serve a me stesso: non voglio che sia la rabbia a governare il mio cuore”. Lucido, quasi crudo: “So bene che l’odio potrebbe scoppiare da un momento all’altro. Faccio di tutto per tenerlo fuori”.
Riuscirà, non riuscirà, farà retromarcia? Che importa saperlo: la vita non prevede addestramenti, getta allo sbaraglio. La grande bellezza sempre nascosta dentro il caos più brutale, il non-inferno giusto nelle viscere dell’inferno, la Pietà nell’immobile blocco marmoreo. Sempre la stessa-storia. Dall’Egitto di Mosè alla Parigi di Antoine-Hélène, traghettando per la Betlemme del Cristo, fin sul Golgota: l’assurda insensatezza di un Dio inchiodato nel nome stesso di Dio. Perché dunque non-odiare? “Devo entrarci in questa storia. Odiare sarebbe come schivare la sofferenza: gioire della morte dell’assassino rischiando di non sorridere più a quelli che restano”.
Nella hall dell’albergo Antoine passeggia un po’ spaesato: il trambusto che gli ronza attorno, addosso, lo rende simile ad un bimbo, il primo giorno d’asilo. Tutto, in lui, sembra evocare la paura. Anche la paura di esserci-ancora: “Non ho scelto che sono ancora vivo” annota nel suo libro. Ammettere la paura, però, è come averla già vinta: la paura è la camera oscura dove si sviluppa il negativo di una foto.
Ascolti Antoine e s’annuncia Platone: “Possiamo perdonare un bambino quando ha paura del buio. La vera tragedia della vita è quando un uomo ha paura della luce”. Non-odiare è avere paura del buio, odiare è avere paura della luce. Perdonare, per chi ne sarà capace, è aumentare la densità di luce.
Chiudo il taccuino e ringrazio: lo lascio alla sua storia. Una sola domanda, tra le mille, è rimasta senza-voce. Ritento: “Chi era Hélène?” Lui, distinto, tace. E’ giusto così: un segreto è tale se rimane segreto. “Merci beaucoup, Antoine”.