Padre Sorge, nella sua intervista al sussidiario, ricorda come il fallimento della cosiddetta “primavera palermitana” degli anni Novanta, mentre in Italia impazzava Tangentopoli, fu causata sostanzialmente dalla volontà di Leoluca Orlando e del confratello padre Pintacuda di trasformare il movimento della Rete in partito, nel tentativo di convogliare forzosamente una sollevazione popolare in favore della giustizia sociale, soprattutto della legalità, in un progetto politico operativo di governo, andando così a disperdere i propri ideali nel tatticismo delle mediazioni “di palazzo”. In una parola, di aver raccolto consenso denunciando i vizi del “sistema” per poi finirci dentro. 



Egli invece insiste sul valore, anche attuale, della democrazia dal basso, che non si realizzò allora, così come non si starebbe realizzando nemmeno ai nostri giorni. A suo giudizio, in quest’ottica, Matteo Renzi è ad oggi da considerarsi una sorta di “male minore”, con buoni propositi e “sguardo cattivo”, ma debole capacità di realizzazione: semplicemente, non vi sarebbero alternative credibili al momento. La visione di Sorge è, in questo senso, pessimisticamente a 360 gradi, quando accomuna l’immobilismo politico in Italia degli ultimi cinquant’anni a quello della Chiesa, papa Francesco ovviamente escluso. Così come quando legge il limite del mancato sviluppo di un’Europa istituzionale realmente rappresentativa dei suoi popoli e condivisa da essi nell’assenza culturale di un vero umanesimo.



Sorge non è certo contrario all’esercizio politico in quanto tale, ma ne prospetta uno più partecipativo, in cui i tanto vituperati corpi intermedi devono ancora trovare spazio per evitare il populismo e le personalizzazioni del potere della “seconda repubblica”; soprattutto, auspica un esercizio del potere concentrato nella costruzione di una “casa comune”, dove si possa realizzare uno spazio di convivenza nel rispetto delle reciproche diversità. Un progetto che, ad esempio, il religioso siciliano non vede come realizzato nel pur ambizioso progetto del Partito democratico che avrebbe, a suo avviso, dovuto concludersi con una “fusione” superiore tra istanze della tradizione socialdemocratica italiana e di quella cattolico-democratica (quella auspicata dal “Manifesto dei valori” di veltroniana memoria, ad oggi inattuato), mentre alla fine si sarebbe realizzato soltanto un mero “cartello elettorale” del centro-sinistra.



Tutta questa analisi è sorretta ultimamente dalla convinzione che oggi a latitare nel nostro paese sia più che altro in tutti i campi — quello politico-istituzionale in primis — il principio della rappresentanza, la piena consapevolezza, che i cittadini dovrebbero avere, di essere in grado di incidere con la loro volontà collettiva nelle scelte del proprio Paese. E però egli, a un tempo, stigmatizza una carenza di spirito civico nell’italiano medio, antitetica alla cultura della buona amministrazione, della “buona politica”, e cioè l’endemica propensione al clientelismo, alla raccomandazione, al bypass dei livelli di controllo e selezione amministrativi, alla ostinata antipatia nei confronti di una società realmente meritocratica. 

Frequentavo l’Università Cattolica in quegli stessi anni Novanta, mentre in tv impazzavano già le “picconate” presidenziali di Cossiga e i primi talk show del capostipite Gianfranco Funari tra manette svolazzanti e tardivi mea culpa… e mi ricordo i dibattiti accesi nelle aule dell’ateneo milanese e, fuori da esse, la crescente attesa di figure che uscissero dai ranghi politici, soprattutto allora dalla Democrazia Cristiana, quasi che ciò avesse significato semplicemente abbattere un sistema malato, identificato principalmente con il suo partito di maggioranza, lo stesso che avrebbe dovuto rappresentare le maggiori sensibilità e valori di molti che quell’università frequentavano. E poi appunto la Rete e i sui protagonisti di “rottura” i quali, a seguire i referendum di Mariotto Segni, sembravano promettere questo futuro rinnovato di democrazia e libertà. 

Oggi sarebbe forse da chiedere a padre Sorge, e a quelli come lui che sinceramente sperarono di potere cambiare le cose, se allora tutto ciò che vi era di possibile fu effettivamente compiuto in tal senso, se la volontà di cambiare una società italiana endemicamente strutturata su reti gerarchiche notabilari e gruppi di interesse si scontrò effettivamente contro un muro invalicabile. La stessa severità che oggi si riserva a chi come Renzi sta provando a trasformare (pure a muso duro, certo) il nostro Paese con quello che ha a disposizione — e lo riconosciamo, francamente non è molto — forse la si dovrebbe rivolgere innanzitutto a quella stagione e a quei protagonisti di allora, i quali, senza offesa, si trovarono in un frangente assai più favorevole di oggi, quando alla scomparsa subitanea e fragorosa di un’intera classe dirigente si sarebbe potuto far seguire appunto una nuova schiera di buoni politici, di buoni amministratori, di persone innamorate del bene comune secondo la pluricitata espressione di Paolo VI: la politica come più alta forma di carità. 

Troppa “purezza” forse non giovò allora, quando chi non si volle “sporcare le mani” alla fine si ritirò al ruolo di spettatore, per quanto autorevole e intellettualmente onesto. Credo che oggi quella stessa propensione al giudizio non dovrebbe però bollare come fallito il tentativo di chi nel cercare di cambiare le cose e di far progredire il nostro Paese, le mani se le sporca metaforicamente nell’esercizio politico quotidiano, alle prese con una società difficilmente governabile e a volte sinceramente indisponibile a compiere effettivi passi di maturazione istituzionale e civile. Forse costoro che oggi ci stanno provando meriterebbero un segnale di conforto, magari pure in qualche caso di correzione fraterna, certamente un’attestazione di ottimismo cristiano: perché sono la nostra nuova generazione, quella di padre Sorge, ad oggi, non è più pervenuta.