La scrittura non è sempre una forma d’arte e per diventarlo ha bisogno di essere esercitata, come avviene in Hasan Ali Toptas. In Europa lo chiamano Kafka turco — anche se lui non vorrebbe essere chiamato così, poiché, dice, il mondo non ha bisogno di un altro Kafka. Nei paesi dove c’è un’attenzione maggiore per la letteratura turca sono tradotti quasi tutti i suoi libri, mentre in Italia è stato da poco pubblicato, per i tipi di Del Vecchio Editore, con la traduzione di Giulia Ansaldo, il suo ultimo romanzo, il primo tradotto in Italia: Heba (Impronte). Quando mi è stato chiesto di fare la lettura finale della traduzione ero molto emozionata. Innanzitutto perché era il mio primo lavoro letterario ufficiale, poi perché la bellezza crudele del lavoro di Toptas mi aveva fatto realmente girare la testa. Mi rendevo conto, leggendolo, che tutto diventava bello in questo libro, anche il male e la sventura. Bella era la tristezza e bella era la felicità. 



Impronte è la storia di un ritorno, o meglio, il desiderio di poter tornare. E’ la storia di Ziya, un uomo perduto nel proprio passato. Dopo aver perso tutto, anche l’innocenza, al confine turco-siriano dove ha passato venti mesi della sua vita per il servizio di leva ed aver visto perire a Istanbul, in un attacco terroristico, la moglie col figlio non ancora nato, decide di trasferirsi in campagna, nel villaggio di Yazikoy dove vive Kenan, suo commilitone. Mosso dalla ricerca del suo paradiso, chiude in casa tutti i mali vissuti, consegna le chiavi al proprietario di casa e se ne va. Non sa però ancora che col male non si combatte scappando e neanche il bosco profondo della campagna gli promette la quiete. In campagna ci sono altre regole e non sono sempre così facili da applicare. 



Perché le persone fanno del male desiderando tanto il bene? Questa è una delle domande principale del romanzo. L’ombra dell’uccello che Ziya uccise da piccolo, nonostante tutta la sua voglia di non farlo, non lo molla. Penetra nella sua coscienza e lo segue ovunque. In ogni male vissuto l’uccello torna. Si fa vivo per non far morire la propria morte. Fino a quando dobbiamo pagare il conto dei nostri errori? La campagna non riesce a rispondere a queste antiche domande. Solo Hulki Dede, un abitante del villaggio, ne sa qualcosa. 

Il romanzo è fatto di sette capitoli (Chiave, Sogno, Quiete, Yaziköy, Frontiera, Riconoscenza, Male) che oscillano tra sogno e realtà. Insegue l’intreccio di tante vite, tanti fantasmi e tanti ricordi ingombranti. Da quel punto di vista si potrebbe considerare un romanzo postmoderno poiché spesso confonde la realtà esteriore con quella interiore. 



Il quinto capitolo però — Frontiera — si distingue dagli altri per il suo crudo realismo. Leggendolo ci si trova lì, gettati al confine turco-siriano, si sente lo schiaffo in faccia del comandante, si prova sulla propria pelle la crudeltà dei posti dimenticati da tutti, si arriva al limite del delirio insieme a Ziya e alla fine tra la speranza e lo sfinimento ci si chiede: passeranno questi venti mesi? Si potrà mai essere come prima?

Questo è ciò che fa di Hasan Ali Toptas; lavorare sull’umano. Tutto il resto diventa uno strumento per capire com’è fatto l’uomo e questo lavoro di individuazione degli angoli più nascosti dell’essere ci è donato in un linguaggio vivo, che soffre e gioisce insieme all’uomo.