Il tempo che rimane è un librino sottile di fitti pensieri e grandi doni. E’ una raccolta postuma di appunti dell’anima catturati e scritti per le pagine di Avvenire da Mirella Poggialini, critica televisiva e cinematografica, dopo essersi formata come raffinata storica dell’arte.
Potrebbero trattarsi di un semplice e dovuto omaggio da parte di estimatori e amici, quelle paginette essenziali, pudiche, pubblicate da Interlinea, che tracciano il diario di una malattia. “Il male terribile”, il cancro, che ha ferito una vita umana e intellettuale vivace, rendendola più fragile e consapevole, più comprensiva e tenera. Un male terribile per cui Mirella ha lottato senza presuntuosi eroismi, senza lanciar sfide, e che ha tenuto a bada per dieci anni, in cui non ha mai mollato di scrivere, di lavorare per la radio e la televisione, di conoscere, dialogare, guardare, con gli occhi acuti esercitati dai dettagli pittorici a scrutare oltre l’impasto dei colori, oltre la polvere depositata sulle tele, oltre gli orizzonti dipinti.
Della sua storia, del suo garbo, della sua eleganza colta e saggia dice tutto nell’affettuosa prefazione lo scrittore e per qualche tempo collega Alessandro Zaccuri. Posso testimoniare, avendola conosciuta, la raffinatezza, l’ironia, il riserbo mai scontroso, ma umile, la curiosità vivissima, la delicatezza nei giudizi veritieri e netti, mai accomodanti. Ma alla lettura di queste pagine come lei pacate, dolenti e intense, resto stupita e commossa dal diario di un’anima così toccata, ispirata, impregnata dalla fede. La consapevolezza della malattia, la trafila delle terapie, la solitudine, la paura, il dolore, il futuro negato. La realtà c’è tutta, nessuna sublimazione spiritualista che ne ammorbidisce la durezza. Ma è una realtà trasfigurata dall’innamoramento per la presenza di Cristo, che significa fiducia, speranza, incomprensibile serenità. Niente rabbia, recriminazione, lamentela. Spalancata davanti a quel “quanto tempo ancora?” che è la costante di ogni risveglio, subito incalzato da un interrogativo di piglio e baldanza: “che farne, di questo tempo?”. Che non è inutile, non è perso, rassegnato, decadente.
Un tempo accettato, sostenuto dalla preghiera continua, da quel “Non temete!” di Gesù ai sui pavidi compagni in barca, nella tempesta. Toccherà crederci. Per godere ancora delle piccole cose, anche quelle” di pessimo gusto” tanto care e cariche di ricordi; per imparare a guardare gli uomini con carità, in comunione; per sorridere e così dire grazie ad ogni mattino donato; per “andare oltre, con un coraggio che non sapevi di avere”, sentire comunque “la ricchezza della vita, la sua bellezza e la sua forza, anche quando la stanchezza malata mi frena”. Toccherà crederci. Perché la vita, e tutto il suo destino, sono più umani, più desiderabili, così.