In una concezione per cui gli dèi sono considerati simili agli uomini per passioni e difetti, l’unica vera differenza che li rende superiori è l’immortalità: in greco gli dèi sono sempre qualificati come gli athànatoi, “i privi di morte”, gli uomini sono i brotoì, gli thnetoì, “i mortali”, o gli ephémeroi “i vivi per un giorno”. Il desiderio di superare la morte ha creato dei miti dagli esiti diversi: la scienza medica di Asclepio fa risorgere Ippolito, morto per colpa di Fedra e per l’incoscienza di Teseo, ma Zeus folgora il medico perché ha superato i limiti concessi dagli dèi; Orfeo con la sua musica incanta il mondo degli inferi, riuscendo a penetrarvi e ottenendo di riavere la giovane sposa, ma quasi al limite fra i due mondi si volta a guardarla violando il divieto imposto dagli dèi e la perde di nuovo; solo Alcesti, che ha scelto di morire al posto del marito, riesce a tornare in vita, per il dono degli dèi o per la lotta di Eracle contro il dio della morte: non a caso l’immagine della donna condotta da Eracle compare nelle necropoli pagane e nelle catacombe cristiane, segno di un desiderio malinconico o di una certezza raggiunta.
Ma se la resurrezione è quasi impossibile, perché è proibita agli uomini o fallisce e conosce una sola eccezione, la vita dopo la morte è quasi unanimemente affermata. L’unica posizione contraria è quella dell’epicureismo, in cui, al di là delle teorie sulla struttura dell’anima, prevale fondamentalmente l’intenzione di impedire il timore del giudizio, della punizione, del mistero che attende oltre la soglia. “L’esatta conoscenza del fatto che la morte non è nulla per noi rende godibile la mortalità della vita… togliendo il desiderio dell’immortalità” scrive Epicuro nella Lettera a Meneceo, con una petizione di principio sconcertante, perché il desiderio non è eliminabile con una teoria, anche proclamata come esatta.
Ed è interessante che Lucrezio, il propagatore dell’epicureismo a Roma, introduca due ipotesi: che l’anima sopravviva al corpo e che corpo e anima col tempo ricostituiscano la persona. Ipotesi che il poeta nega a partire dall’idea dell’unità dell’essere e dell’impossibilità del permanere della coscienza, ma che sono per noi affascinanti nella loro misteriosa chiaroveggenza. Tutto il resto del mondo pagano afferma invece la continuità dell’esistenza dell’anima in un altrove, la cui collocazione e la cui consistenza variano di epoca in epoca, di autore in autore. Accanto alla prevalente concezione omerica per cui i morti hanno una comune sopravvivenza oscura e malinconica o, per dirla col poeta latino Orazio, sono polvere ed ombra, tende ad affermarsi un oltretomba differenziato, segno che non vi è solo il desiderio di sopravvivere, ma anche quello di una giustizia che dia senso alla vita vissuta; segno anche che l’idea epicurea del timore del giudizio non ha consistenza, se non positiva come deterrente dal male.
Ciò che accomuna le visioni, di Pindaro o Platone o Virgilio, è la certezza di una punizione eterna per i colpevoli, in una sede, il Tartaro, da cui non usciranno più e la cui vista, per Virgilio, è negata ai pii perché già vederne i contorni e udirne i suoni contamina.
Legata a questa certezza vi è quella di giudici certi, infallibili: “Se uno, giunto nell’Ade, liberato da questi qui che si dicono giudici, troverà i veri giudici che si dice giudichino là, Minosse, Radamante, Eaco, Trittolemo e quanti altri semidei furono giusti nella loro vita, sarebbe forse di poco valore la migrazione?” dice Socrate nella parte finale dell’Apologia.
In più visioni è poi prevista per i buoni la purificazione dai residui di male, dalla pesantezza del corpo, con pene diverse e in luoghi mai descritti; come pure la sosta provvisoria in luoghi ameni, simili alla terra per luminosità e piaceri, ma non definitivi, neppure l’Elisio. E’ evidentemente più facile immaginare l’eternità del male che l’eternità della beatitudine, l’abisso del Tartaro che un luogo stabile di gioia, l’Inferno che il Paradiso. A fronte di alcuni luoghi fisici collocati nell’al di qua, la Via Lattea per Cicerone o le Isole dei Beati nell’Atlantico per Esiodo o Pindaro, più spesso prevalgono concezioni di origine orientale, la serie di reincarnazioni e al termine del ciclo la fusione con l’anima universale: “Tutti gli esseri infine vi ritornano e vi si riportano dissolti, e non c’è posto per la morte, ma volano vivi nel numero delle stelle e salgono nell’alto del cielo“ dice Virgilio nelle Georgiche.
Diversa è l’idea platonica esposta nel Fedro all’interno dell’allegoria dell’anima come biga alata: le anime i cui aurighi sanno guidare la biga seguono al di là del cielo i voli in processione dei carri degli dèi, contemplando lungo il percorso le Idee, le realtà autentiche da cui ogni conoscenza umana deriva in modo imperfetto; ma quando la biga cade perché mal governata, l’anima s’incarna nella pesantezza di un corpo, e solo dopo migliaia di anni e di reincarnazioni riprende le ali: ritorna allora nell’unico luogo di beatitudine, l’Iperuranio degli dèi e delle Idee.