Per il momento è stata solo annunciata. Ma la barriera al Brennero, lunga 370 metri e alta quattro, potrebbe diventare presto realtà. Non si può però ridurre la controversa questione dei confini a quando e come verrà installato il reticolato, e neanche alla sua reale o presunta tenuta rispetto ai flussi migratori. Nella vicenda del muro sono in gioco questioni cruciali per l’identità europea. Tra queste, al di là di ogni retorica, c’è il futuro dell’Europa e di noi europei. Ciò che vogliamo essere e dove vogliamo andare.
E poi in Italia il Brennero rievoca la lunga contesa con l’Austria, soprattutto dopo il 1945. Anche in quel caso immigrazione e cittadinanza hanno generato apprensione: la Regione Trentino Alto Adige ha fatto parte dell’Impero austro-ungarico fino alla prima guerra mondiale, poi è passata all’Italia e negli anni successivi ha subito una italianizzazione forzata ad opera del fascismo. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 nacque la zona di Operazione delle Prealpi sotto il diretto controllo nazista. Intanto, dal 1939, i cittadini italiani di lingua germanica avevano potuto optare per il Reich, e a causa delle pressioni del regime hitleriano circa 185mila altoatesini acquisirono la cittadinanza tedesca.
Dopo la guerra il destino dell’area continuò a essere problematico. Nel 1946 gli accordi tra Alcide De Gasperi e il ministro degli Esteri austriaco Karl Gruber garantirono un trattamento equilibrato alla minoranza di lingua tedesca. Ma per decenni l’applicazione di molte norme rimase in sospeso. L’Italia tendeva a ridurre al massimo le cosiddette “riopzioni” degli altoatesini, cioè i cittadini diventati tedeschi dopo il 1939 che desideravano ritornare italiani. In più, il governo De Gasperi iniziò una battaglia a difesa dell’italianità tramite l’Ufficio per le zone di confine, un organo affidato al giovane sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti. Abbiamo documentato questo passaggio, tra gli altri, nel nostro volume Andreotti e l’Italia di confine. Lotta politica e nazionalizzazione delle masse (1947-1954), Guerini 2015. Così, tra il 1947 e il 1954, il leader democristiano destinò generosi finanziamenti ai potenziali difensori della causa nazionale: giornali, attività sportive, culturali, associazionistiche, chiese e oratori. L’Austria invece sperava in una forte presenza di cittadini italiani di lingua germanica per chiedere l’annessione dell’Alto Adige. E come spesso accade in situazioni di forti contrapposizioni, nacquero pure movimenti terroristici.
Di attentati se ne contano più di trecento, concentrati soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, e i morti furono più di venti. Gli obiettivi dei gruppi eversivi altoatesini erano contrastare la presenza di italiani provenienti da altre Regioni, far valere i propri diritti di minoranza, favorire il ritorno del territorio all’Austria. Non bastarono gli accordi del 1946 a pacificare la situazione, e non poté fare molto il ricorso di Vienna all’Onu nel 1960, che pure diede alla questione altoatesina una risonanza mediatica mondiale. Nemmeno la “guerra dei tralicci”, come venne ribattezzata l’interminabile sequenza di atti violenti, riuscì a porre fine alla contesa etnica.
Qualche passo in avanti venne fatto con il secondo statuto di autonomia del 1972, ma si dovette attendere l’inizio degli anni Novanta per avere un rapporto disteso tra i due Paesi. Solo nel 1992 vennero attuate le norme favorevoli al gruppo di lingua tedesca, e l’Austria ritirò il ricorso all’Onu che pendeva dal 1960. E sempre nel 1992 Roma cessò di porre il veto all’ingresso di Vienna in Europa, che avvenne tre anni più tardi.
Per dirimere la controversia etnica c’è così voluto quasi mezzo secolo, ma oggi le popolazioni di lingua italiana e tedesca vivono pacificamente all’interno nella Regione Autonoma Trentino Alto Adige/Südtirol, da tutti considerata un esempio virtuoso di convivenza. C’è voluto mezzo secolo di incomprensioni, attentati, paure. Ma anche di dialogo. Perché Italia e Austria erano divise ma in fondo unite sull’essenziale, cioè sulla possibilità, magari appena intravista, di poter dialogare e ripartire insieme. Non si spiegherebbero altrimenti gli accordi di cooperazione economica e l’incessante lavoro diplomatico: ci sono voluti cinquant’anni e c’è voluta una prossimità con l’altro, un guardarsi negli occhi, da vicino, senza muri e senza barriere.
Questo lo aveva ben chiaro uno dei “padri fondatori” dell’Europa come De Gasperi, che non a caso era un uomo di confine. Pochi giorni dopo l’accordo siglato con Gruber si augurava che il Brennero diventasse «un ponte e non una barriera». Settant’anni dopo condividiamo questa speranza seguendo papa Francesco e il suo invito a rimuovere i muri, sia quelli dell’indifferenza, sia quelli «della triste realtà». Perché impediscono di guardare l’altro e di accorgersi che, a ben vedere, è come noi.