La domanda da dove vengono i bambini è il dilemma dell’infanzia, ma non per questo lo si può considerare un dilemma infantile. A maggior ragione non lo si può considerare infantile nel momento in cui il desiderio del figlio da parte di coppie dello stesso sesso sembra stregare l’interesse dei media e mentre il continuo progresso delle tecniche biomediche mette in forse la centralità del rapporto sessuale ai fini procreativi.



Tra le diverse e originali Teorie sessuali dei bambini che Freud raccolse in un volume del 1908 nessuna contempla la cicogna. O i cavoli, sotto i quali, secondo il detto popolare, i bambini nascerebbero. Le pur originali e ingegnose ipotesi dei bambini sulla nascita raccolte da Freud hanno sempre a che fare col corpo della madre, per quanto vada osservato che la comprensione della via maestra del rapporto sessuale resterà per il bambino a lungo preclusa. Pare sia andata così anche nella storia dell’umanità, che non ha dovuto attendere a lungo solo per scoprire il fuoco, o per fabbricare i primi rudimentali utensili, ma anche per afferrare il nesso logico tra rapporto sessuale e figlio: su questa sfasatura cronologica che riguarda sia la storia individuale sia la storia dell’umanità riposa la distinzione tra vita sessuale (presente già nel bambino) e vita riproduttiva (propria della vita adulta).



Il dibattito appena assopito sull’adozione da parte di coppie delle stesso sesso riporta in auge l’antico quesito sulla nascita dei bambini, e con esso anche la cicogna torna di moda sotto forma di “utero in affitto”. La frase “utero in affitto” è una metonimia, la figura retorica che nomina la parte per indicare il tutto, e ovviamente (ma mai dire mai) rappresenta la donna: quindi non “utero in affitto”, ma “donna in affitto”. La situazione descritta e il linguaggio utilizzato richiamano lo sfruttamento del proletariato che Marx definiva come “chi altro non ha da mettere sul mercato che la propria forza lavoro”, cioè il proprio corpo. In Italia “affittare” una donna a fini procreativi è reato, ma non è così in tutto il mondo e questo spinge gli interessati a migrare; un fenomeno che riguarda sia coppie omo sia coppie etero.



Si dovrebbe facilmente notare che dall’utero in affitto alla schiavitù il passo è breve, non fosse altro per gli importanti precedenti biblici, dove a fare da cicogna erano appunto le schiave. Stupisce che nel recente acceso dibattito sui media nessuno abbia ricordato il caso biblico di Agar, la schiava di Sara che darà ad Abramo il primo figlio, Ismaele, e il caso di Bilha, la schiava di Rachele — la moglie prediletta — che darà a Giacobbe i figli Dan e Neftali.  

Quest’ultimo è l’episodio narrato nel Libro della Genesi rivisitato da Thomas Mann nel suo romanzo Le Storie di Giacobbe: “Rachele aveva avuto in sorte il piacere. Ma un’altra avrebbe sostenuto i dolori. (…) Del resto ella compiva gioiosamente e devotamente tutto quello che le era concesso e prescritto di fare. Lasciò che Bilha partorisse sulle sue ginocchia secondo (quanto) esigeva il cerimoniale”.

Sara e Rachele si erano però credute sterili anzitempo, e come accade a volte ancora oggi a chi ha cercato un rimedio dopo accurate diagnosi di infertilità successivamente smentite dai fatti, anche Sara e Rachele concepirono. Sara concepì Isacco e Rachele concepì Giuseppe e Beniamino, gli ultimi dei dodici figli che Giacobbe ebbe dalle due mogli sorelle e dalle loro schiave.

La battuta “I bambini li porta la cicogna” non è però un semplice depistaggio della curiosità infantile. Si tratta piuttosto dell’offerta di una risposta in forma di rebus da risolvere (a tempo debito), come ha notato Freud con la sua interpretazione della cicogna (L’avvenire di un’illusione, 1927), ri-centrando così il quesito riguardante la nascita sul rapporto sessuale (anche la metafora popolare del cavolo sotto il quale nascerebbero i bambini è interpretabile nello stesso modo). 

Oggi il rischio di depistaggio del pensiero del bambino è maggiore che al tempo di Freud. Se il nocciolo risiede ancora nel distrarre il pensiero dal nesso nascita-rapporto sessuale, il suo sviluppo moderno non offre più al bambino, sul piano simbolico, un rebus che stimoli la sua “brillante intelligenza”, secondo l’alta considerazione freudiana dell’intelligenza del bambino, ma apre piuttosto la porta a pensare che i bambini si comprino, magari all’ospedale come luogo reale (non solo simbolico) di “fabbrica” dei bambini.

Ciò che negli adulti presiede al desiderio del figlio non è riconducibile ad una motivazione univoca, ma a una costellazione di fattori dove le aspettative consapevoli si mischiano a spinte inconsapevoli, che affondano nella memoria e nella storia individuale, negli slanci ideali o in fantasie risarcitorie, di omologazione o di riscatto futuro attraverso la progenie. Questa complessa nebulosa viene espressa comunemente dalla locuzione: desiderio di un figlio, desiderio del figlio. Merita allora osservare che il senso della frase non è univoco. Come genitivo oggettivo indica il desiderio di avere un figlio. Come genitivo soggettivo indica il figlio (non il genitore) come soggetto di desiderio. Una variante linguistica e grammaticale che spariglia le carte, raccogliendo al minimo comun denominatore di soggetto di desiderio (e non oggetto), il figlio: sia i figli naturali, sia i figli “comprati”.