Per gentile concessione dell’autore, proponiamo il discorso che Luciano Violante, in occasione del centenario della nascita di Aldo Moro, ha pronunciato in apertura della Biennale delle Memorie 2016 il 4 maggio scorso, a Bari, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Oggi siamo chiamati a leggere nei pensieri e nelle analisi di Aldo Moro le tracce di una lezione per il nostro presente. Non è un compito rituale, perché esiste ancora una netta sproporzione tra le analisi dedicate al Moro prigioniero dei terroristi e quelle che riguardano la sua trentennale attività di uomo di Stato.
Le prime tendono a schiacciare le altre; a far dimenticare la vita vissuta come se essa fosse ormai collocata in un indistinto, inutile passato.
Se ci lasciassimo sedurre dalla tentazione liberatrice dell’oblio perderemmo un prezioso metodo per affrontare i problemi del consolidamento della democrazia.
L’attualità di una parte rilevante del pensiero di Aldo Moro sta nella sua costante fatica diretta a cogliere il significato profondo dei fatti per intravederne l’evoluzione e consentire alla politica di governare gli avvenimenti invece che esserne succube. Da questo metodo abbiamo molto da imparare in una fase nella quale troppo spesso ai fatti viene delegato il compito di guidare la politica. Moro invece si sforzava continuamente di leggere il significato degli avvenimenti, ponendoli in rapporto con i caratteri del tempo nel quale essi si erano verificati. In questo modo la politica non dipendeva dai fatti o, peggio, dalla cronaca; ma riusciva a governarli, a dirigerli.
Altre culture politiche, sue contemporanee, tentavano di risolvere il problema del rapporto con la realtà attraverso l’ingabbiamento dell’esperienza entro modelli precostituiti apparentemente razionali, ma che la storia ha dimostrato essere arbitrari e densi di tragiche conseguenze.
Invece l’intelligenza della storia che Moro proponeva nelle sue analisi non derivava dal rapporto con modelli astratti; derivava invece dall’abitudine di sottrarsi ai luoghi comuni e dalla capacità di proporre interpretazioni che andavano alle radici della realtà e ne individuavano il senso di marcia.
Questo metodo ha conferito alle sue analisi una sorta di valore profetico che non era frutto di misteriose attitudini. Era frutto di una profonda capacità di andare oltre le apparenze, di cogliere i nessi tra avvenimenti apparentemente distanti, il loro senso di marcia e la loro connessione con i processi profondi della società. I discorsi fatti da Moro nel ’68, ad esempio, avvertivano i dirigenti politici dell’epoca che quei movimenti andavano presi sul serio e lasciavano intravedere questioni che, se abbandonate a sé stesse, avrebbero portato a tragedie che avrebbero colpito l’intera società italiana. L’appello rimase inascoltato, le tragedie ci furono. Analoga fu l’analisi che Moro propose alcuni anni dopo nei confronti dei diversi terrorismi, individuando dietro di essi progetti politici che andavano combattuti anche sul piano politico e non solo sul piano criminale.
Fu sempre ammirato, ma raramente ascoltato. La sua superiorità intellettuale non era contestata. Ma poneva problemi che andavano oltre il contingente, che costringevano a modificare previsioni, progetti e rapporti di forza. E, tragedia nella tragedia, restò vittima di quei giovani che egli, unico tra i grandi dirigenti politici del suo tempo, aveva proposto di capire.
Oggi ci manca troppo spesso l’attitudine alla comprensione del significato dei fatti e delle loro radici. Questa mancanza ci pone spesso in balia della cronaca, alla quale reagiamo con logiche precostituite, imputando i fatti favorevoli ai nostri meriti e gli altri alla altrui malvagità. Moro ci suggerirebbe probabilmente di uscire dai nostri gusci e di avere il coraggio della verità perché la menzogna politica, nelle sue molteplici forme, diventa il sepolcro della libertà.
Una delle preoccupazioni costanti fu quella relativa al governo della “democrazia difficile”. A coloro che ritenevano la democrazia un fatto acquisito una volta per tutte e mai in vero pericolo, Moro proponeva che il sistema parlamentare fosse in continua evoluzione e funzionasse per integrare coloro che ne erano fuori o per propria scelta o perché socialmente emarginati. Di qui l’importanza che egli annetteva al concetto di “fluidità”: “non chiudere le cose, non compiere scelte unilaterali”; lasciare quindi sempre una strada aperta per rendere la democrazia capace di accogliere, integrare, unificare nel rispetto delle differenze.
Solo la flessibilità dei processi politici può consentire alla democrazia di accogliere i desideri e le speranze di coloro che erano lontani dalla partecipazione democratica. Mentre, nei primi anni della vita repubblicana, Moro poneva in questa forma il tema dell’espansione della base democratica del sistema politico, altri affrontavano nello stesso tempo lo stesso problema attraverso miti e simboli che affidavano le soluzioni alla mediazione dei partiti e alla capacità di trascinamento propria delle ideologie.
L’integrazione c’è stata. Difficile dire quale delle due forme sia stata più efficace; forse, negli anni di Moro, sono servite entrambe a superare i rischi della frattura tra sistema politico e società.
Il suo sforzo continuo di rappresentare senza infingimenti la complessità del reale, le sue contraddizioni e le sue potenzialità lo portava ad una lingua difficile, ad immagini apparentemente contraddittorie. Pasolini era insofferente rispetto alla sua lingua e negli anni Settanta disse di lui “ha potuto e può far tutto… a patto di tacerlo”. Il giudizio era ingeneroso, perché in realtà Moro avvertiva in termini drammatici il peso delle responsabilità che negli anni Settanta gravavano sul suo partito e del conflitto tra la forza di quel partito e la sua inadeguatezza a ricucire le fratture che si aprivano nella società e nel mondo politico. La sua oratoria non poteva non risentire della drammaticità del decennio che si concluse con il suo omicidio.
Italo Calvino colse il rapporto tra complessità del reale e complessità della lingua. E scrisse in Note sul linguaggio politico: “Quando le cose non sono semplici, non sono chiare pretendere chiarezza, la semplificazione a tutti i costi, è faciloneria e proprio questa pretesa obbliga i discorsi a diventare generici cioè menzogneri… lo sforzo di cercare di pensare e di esprimersi con la massima precisione possibile proprio di fronte alle cose più complesse è l’unico atteggiamento onesto e utile”.
L’attenzione di Moro per le strutture sociali e politiche lo rese più un innovatore del contesto politico che delle strutture istituzionali. Questo suo distacco dalle istituzioni formali fu colto con un certo rammarico da Giuseppe Bettiol, senatore democristiano e stimato giurista suo contemporaneo, che dedicò un suo importante libro “Ad Aldo Moro, collega ed amico, che questo genere di studi nobilmente disdegna”.
In realtà Moro non ignorava la grande funzione delle istituzioni democratiche, ma non si abbandonò mai all’illusione regolatoria, l’idea che l’ordine — altra categoria spesso richiamata nei suoi interventi — dipendesse solo dalle regole. Di qui la sua attenzione al contesto politico, agli avvenimenti, alla realtà nella quale si muovevano i protagonisti della vita politica e sociale.
In un intervento in Assemblea Costituente, il 13 marzo 1947, sostenne che “costruendo il nuovo Stato, noi determiniamo una formula di convivenza; non facciamo soltanto organizzazione dello Stato, non definiamo soltanto alcuni diritti che intendiamo sanzionare per la nostra sicurezza nell’avvenire; determiniamo appunto una formula di convivenza, la quale sia la premessa necessaria e sufficiente per la costruzione del nuovo Stato”. Ancora una volta le strutture sociali e politiche prima di quelle giuridiche e ordinamentali.
E’ impossibile trovare nei suoi discorsi parlamentari o nell’Assemblea Costituente accenti irrispettosi nei confronti degli avversari. Ma questo non per una sorta di galateo formale. Moro era convinto della necessità della regolazione del conflitto politico che non doveva mai trascendere in rotture irrecuperabili o in offese alla dignità delle persone, per consentire il percorso della vita politica. Persino in uno dei momenti più difficili per il suo partito, la vicenda Lockheed, non ebbe parole violente mei confronti degli accusatori, ma solo una forma di pungente e amara ironia: “Se avete un minimo di saggezza, della quale, talvolta, si sarebbe indotti a dubitare, vi diciamo fermamente di non sottovalutare la grande forza dell’opinione pubblica che, da più di tre decenni, trova nella Democrazia cristiana la sua espressione e la sua difesa“.
Il denominatore comune delle riflessioni di Moro è stato il consolidamento permanente della democrazia. Perché la democrazia non è figlia di una predisposizione naturale dei cittadini e dei popoli. E’ frutto di sofisticati equilibri tra i diversi poteri pubblici, della partecipazione attiva dei cittadini, dell’equilibro tra diritti e doveri, di contesti di rispetto e di inclusione, della capacità di porre un freno al conflitto politico.
Quando queste qualità non sono presenti la democrazia deperisce, i suoi strumenti si inceppano, nella società si manifestano pulsioni egoistiche, rancori, banalizzazione dei problemi sociali, primato degli interessi individuali sul bene comune. Perciò credo che si possa dire che uno dei grandi e attuali insegnamenti che egli ci ha lasciato è il dovere civile della cura assidua della democrazia, delle sue regole e dei suoi valori.