Il nome di Sir William Gerald Golding è legato indissolubilmente al suo capolavoro, Il Signore delle mosche, ma c’è molto ancora da scoprire e da conoscere su questo grande scrittore, e il libro L’ombra delle mosche, di Luca Fumagalli, giovane attento studioso della storia e della cultura britannica, edito da Il Cerchio, è il mezzo più adeguato per inoltrarsi nel mondo di Golding. 



Quando nel 1983 la sua carriera venne solennemente coronata dal Premio Nobel per la letteratura, la motivazione così recitava: “per i suoi romanzi che, con l’acume di un’arte narrativa realistica e la diversità e universalità del mito, illuminano la condizione umana nel mondo odierno”. Una definizione una volta tanto pienamente adeguata. Golding fu un vero esploratore dell’animo umano, con i suoi lati solari e quelli più oscuri.  



La sua sensibilità si era senza dubbio nutrita nell’humus in cui era cresciuto, a partire da quello della sua terra, la Cornovaglia. Un’antica terra celtica, che vide nel Medioevo svilupparsi i miti del ciclo di Re Artù. Quando Golding vi nacque nel 1911, la Cornovaglia celtica era ormai solo un romantico ricordo, ma indubbiamente le leggende antiche della sua terra entrarono nell’animo e nell’immaginario di Golding, che ebbe modo anche di scrivere un romanzo di ambientazione medievale, poco conosciuto ma affascinante: La Guglia, del 1964, in cui il protagonista, il decano di una cattedrale, è ossessionato dall’idea di realizzare una torre di altezza mai raggiunta, fino a comprendere — poco prima della sua morte — di aver tradito il suo rapporto con Dio. 



Il secondo elemento chiave nella formazione del giovane Golding fu la sua famiglia: il padre era un dirigente scolastico, di idee socialiste, mentre la madre era stata una suffragetta, ovvero una proto-femminista che si era battuta per il diritto di voto alle donne. Cresciuto in un clima di forte attenzione ai temi sociali, nutrito da una solida fede protestante popolare, lontana dal secolarismo liberale che già aveva infettato la chiesa anglicana, Golding negli anni universitari trascorsi a Oxford, dove studiò letteratura e filosofia, si accostò alle teorie del pensatore austriaco Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia, una scuola di pensiero di tipo esoterico che aveva suscitato al suo apparire anche in Inghilterra un certo successo, in particolare a Londra. E fu proprio nella capitale che Golding decise di trasferirsi lavorando come insegnante. 

In seguito decise tuttavia di tornare a vivere nell’Inghilterra profonda, rurale, antica, e si trasferì a Salisbury, una cittadina celebre per la sua splendida cattedrale medievale e per la vicinanza a Stonehenge, uno dei più celebri siti archeologici mondiali, un luogo carico di mistero che non poteva non affascinare il giovane insegnante, attratto dalla conoscenza esoterica. A riportarlo alla realtà fu la donna di cui si innamorò e che poi sposò: Ann Brookfield, un’attivista politica impegnata nell’ambito dei diritti dei lavoratori.  

Dopo la nascita del loro primo figlio, nel 1940, Golding venne chiamato alle armi in Marina e prese parte alla seconda guerra mondiale, un’esperienza che lo toccò profondamente. Golding seppe vedere nella guerra l’espressione peggiore dell’animo umano, e le fanfare della vittoria finale degli alleati non prevalsero sulle immagini di violenza, di strazio, di dolore che gli rimasero impresse indelebilmente nell’anima. 

Una volta smobilitato tornò all’insegnamento, sempre a Salisbury, e alla scrittura. Nel 1952 cominciò a scrivere un romanzo intitolato Strangers from Within,che significa “intimamente stranieri” e che spedì a diversi editori ottenendo solo risposte negative. Nel 1954 il romanzo venne pubblicato con il titolo Lord of the flies (“Il signore delle mosche”) dalla casa editrice Faber&Faber diretta dal grande poeta Thomas S. Eliot, che suggerì lui stesso il nuovo titolo, ispirandosi ad una metafora di Satana.

Curiosamente Il Signore delle mosche uscì lo stesso anno in cui fu dato alle stampe un altro capolavoro, un altro Lord: The Lord of the Rings, “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien. Entrambi i titoli richiamano due protagonisti negativi,due signori del Male. Ma mentre l’esito del volume di Tolkien è positivo, con la speranza, la cosiddetta Eucatastrofe che prevale sul male, il libro di Golding ha un esito amaro: l’uomo sembra incapace di agire umanamente. Sembra inevitabilmente attratto dalla violenza, dall’odio per il prossimo, e finisce per essere lupus verso i suoi simili.

Il romanzo di Golding ebbe il grande merito di smascherare l’ottimismo di Rousseau del buon selvaggio che aveva attraversato — a partire dall’illuminismo — tutta la modernità. Da insegnante aveva visto le rivalità, le contese, anche le violenze che possono insorgere tra i ragazzi. La sua visione dell’infanzia e dell’adolescenza non era quella dei pedagoghi ottimisti e buonisti, ma uno sguardo pieno di realismo, pieno di consapevolezza di come il Mysterium iniquitatis si intrufola e agisce nelle vicende umane. 

Un realismo che tuttavia sfocia in una totale sfiducia nelle possibilità di convivenza pacifica dell’uomo, un atto di accusa verso le illusioni generate dal culto del progresso, che nega il peccato originale e le sue conseguenze sull’agire umano. Un pessimismo che si presenterà anche in altre opere dell’autore, dove ritornerà anche il tema del naufragio, che è centrale nel Signore delle mosche. Il naufragio come metafora della condizione umana. Siamo marinai — come descritto nel romanzo del 1956 La folgore nera — che riescono solamente ad aggrapparsi ad uno scoglio, cercando di resistere alla violenza, alla sopraffazione e al mare, grande sudario che si stende sulle nostre vicende. Ci resta la dignità con cui affrontare i Riti di passaggio che la vita ci offre.