La scala di ferro presenta una sequenza incredibile di atti mancati, che, come accade di frequente nei “romanzi duri” di Simenon, traggono il loro inizio da una colpa, o, forse, da un’omissione di responsabilità, da una parziale colpevolezza che, come una tabe, ammorba l’anima e segna la sorte del protagonista.



Étienne, sposato da quindici anni con Louise, comincia ad avvertire degli strani sintomi: bruciori di stomaco, senso di calore, soprattutto dopo aver mangiato. Lentamente, si persuade che la moglie, una bella donna di qualche anno maggiore di lui, lo stia avvelenando. Il racconto si apre proprio mentre Étienne annota su un foglietto che cosa ha mangiato a pranzo, e se la moglie ha preso le sue stesse pietanze o no. 



Étienne e Louise sembrano due animali in gabbia: di tante centinaia di migliaia di persone che vivono a Parigi, essi non conoscono nessuno, non frequentano nessuno, a parte una coppia di amici: sono essi soli, soli di fronte al mondo, alla vita degli “altri”, che animano e affollano il luna park davanti alle loro finestre, da cui scorgono, come distrattamente, le luci e le insegne delle giostre e delle attrazioni. Animati, per anni, da una sorta di profondo e impossibile bisogno di fusione, di diventare una cosa sola, hanno circoscritto loro vita, il loro orizzonte con le pareti della loro ditta, una solida azienda di forniture di cancelleria e cartoleria, al piano di sotto, e con quelle dell’abitazione al piano di sopra. La scala di ferro del titolo è, appunto, la scala che mette in comunicazione il negozio con l’appartamento, o meglio, proprio con la camera da letto. Ed è lì, dal suo letto di malato, o dalla poltrona, che Étienne spia i suoni che vengono dal piano terra, i movimenti, le parole degli impiegati, e soprattutto della moglie, questa bella donna dalle forme piene e dalla vitalità esuberante, che ha dato un senso all’esistenza scialba e solitaria dell’uomo. 



E veniamo così, lentamente, a sapere, per gradi, come i due coniugi si sono conosciuti: Étienne, appena ventiquattrenne, era arrivato a Parigi come rappresentante di una ditta di cancelleria, le Papeterie du Sud-Ouest; Louise, all’epoca una bella trentenne già sposata, lo aveva conosciuto per motivi di lavoro, e subito era scoppiata la passione: e il marito, in modo veloce e inspiegabile, si era ammalato, era deperito, appassito, e poi morto. Mentre, a distanza di anni, Étienne raccoglie le prove dell’avvelenamento di cui è ora lui la vittima, riflette e capisce che ha sempre saputo, che ha sempre voluto ignorare, chiudere gli occhi, di fronte al delitto che Louise quindici anni prima ha compiuto per stare con lui, per appropriarsi di lui, addirittura sottraendolo al suo impiego perché lavorasse nell’impresa di famiglia, senza nemmeno uno stipendio regolare. 

C’è una sotterranea complicità fra vittima e carnefice, un carnefice cui Étienne riconosce una vitalità che a lui manca, e che forse prova persino pietà per l’uomo di cui sta, lentamente, causando la morte: “Forse aveva pietà di lui, come si ha pietà di un gatto che si è costretti ad annegare” (p. 102). Addirittura, quando il marito avrà la prova del fatto che la storia si sta ripetendo, ma a parti invertite, che c’è un uomo, più giovane di lui, molto più giovane di quanto non era lui al suo arrivo a Parigi, un uomo che Étienne conosce benissimo, che ha visto addirittura bambino, che cosa mai potrebbe fare, soggiogato com’è da Louise, dato che quella donna rappresenta tutto il suo mondo? Armato di tutto punto, come il Michele degli Indifferenti deciso a farsi giustizia, anche  Étienne ha un sussulto d’orgoglio. Ma il finale possibile è uno solo, e sarà, come sempre, una tragedia.