Se avete in animo di andare a Berlino, non fatevi sfuggire l’occasione di vedere l’interessante e inquietante mostra “L’inventario del potere. Il Muro di Berlino da un’altra prospettiva”, (Inventarisierung der Macht. Die Berliner Mauer aus anderer Sicht), che viene ospitata presso il Haus al Kleist Park della città dal 27 maggio al 21 agosto 2016.
Verrebbe voglia, dato il tema, di scrivere tutte le parole in maiuscolo, come è ben reso dal tedesco, per evocare l’immane potenza del terrore. In questa mostra, curata da Annett Gröschner, scrittrice originaria della Germania Est, e da Arwed Messmer, fotografo di provenienza tedesco-occidentale, il potere è evocato in toni apparentemente minimalisti, quasi per contrasto ai suoi effetti. Le fotografie del terribile e famoso Muro, ora digitalizzate, sono su materiale ingiallito, quasi strappato allo scorrere del tempo, friabile, fragile, precario, assemblate orizzontalmente e in maniera ripetitiva, per sottolineare l’astrazione del potere, ma anche la cifra individuale che vien qui, dai curatori, artisticamente colta. Anche le puntine, con cui le immagini sono appese ai muri, ricordano la volatilità del potere che, seppure immane, precipita da un momento all’altro. L’effetto è, in realtà, potente, schiacciante, tremendo: ossia quello di essere sovrastati e osservati dal potere e dai suoi burocratici ma mortali meccanismi.
Veniamo al dunque, ossia ciò che è mostrato in questa officina, straniante e oggettiva al tempo stesso. I due curatori — cui si deve una precedente, analoga ma oggi ampliata, mostra sul Muro che si eresse per volere dei tedeschi orientali, per dividere, dal 1961 al 1989, Berlino Ovest dalla Repubblica democratica tedesca, non permettendo, si sa, di essere varcato — mettono in scena il volto feroce e apparentemente quotidiano, “normale”, banale, per riprendere un’espressione di Hannah Arendt, del potere esercitato dall’apparato statale della Germania Est attraverso il Muro. Colto, questa volta, dalla prospettiva altra e inedita dell’Est. Fino a ora si conosceva il volto del Muro visto e fotografato da Berlino Ovest. Gröschner e Messmer mettono in mostra il Muro da un’altra prospettiva, quella della Berlino orientale e di altri territori dell’Est.
Come è stato possibile ciò? Fotografare il muro dalla parte orientale era, si sa, vietato. Ma non all’apparato statale, politico e burocratico della Germania orientale che lavorò alla costruzione e al continuo perfezionamento del Muro fin dai suoi inizi. Nella metà degli anni Sessanta, le truppe militari della Germania orientale vollero documentare questa officina della segregazione e della separazione per rendere visibile, attraverso le sue fotografie, agli ingegneri e costruttori, e agli addetti ai lavori, il da farsi e il già fatto. Le pellicole, per caso ma non a caso ritrovate dalla Gröschner nel suo lavoro presso l’Archivio militare, erano state poi abbandonate, dimenticate. La mostra, che oggi vediamo, rende in parte visibile questo materiale, interamente documentato nei due grandi tomi, acquistabili e contenenti 1627 immagini con relativi commenti, ed è il frutto di una collaborazione durata decenni: Messmer ha sviluppato digitalmente le pellicole, Gröschner ha scritto i testi che le accompagnano.
Al reinvenimento del materiale fotografico si è aggiunto, negli anni, un infaticabile e appassionato lavoro di archivio, che è ben visibile negli stralci degli interrogatori che ci guardano dalle pareti dell’installazione, nella ricostruzione delle testimonianze di chi ha anche solo sostato, presso il Muro, e che è stato intercettato dal potere, degli interrogatori dei fuggiaschi. Tutto ciò accompagna le fotografie che servivano al potere per documentare e migliorare l’incessante costruzione del Muro. Che in realtà è costituito da due muri, intervallati da un luogo di nessuno, fatto per lo più di melma, di fango su cui potevano restare facilmente impresse, e dunque ripercorribili, le orme degli infelici fuggitivi, più spesso catturati e talvolta uccisi. Così le fotografie documentano e raccontano le recinzioni di filo spinato che, se sfiorate, suonavano, così come le torri di controllo, approntate lungo tutto il percorso, che ci riportano alle immagini concentrazionarie dei campi.
Ma non mancano, nelle sale che ospitano questo inventario, preciso e spietato, del terrore, i volti delle guardie e dei poliziotti di confine, per lo più giovani e provenienti dal resto della Repubblica democratica, cui sono stati celati gli occhi per renderli, oggi, anonimi, irriconoscibili. Così come non possono mancare i “cartellini da visita” dei cani da guardia addetti alla sorveglianza, di cui viene tracciata l’ascendenza, la pura razza, l’origine. Il tutto — colto oggi da una prospettiva che è al tempo stesso documentaria, empatica e creativa — ci riporta alle parole di Paul Celan, poeta ebreo di lingua tedesca, che ricordava come la morte fosse un “Maestro tedesco”. E i lager, un passato che non passa. Neppure quello del Muro e della guerra fredda, forse neppure trascorsa, e che oggi si ripropone e ricompare non solo in queste sale, ma in tutti i muri e confini che si erigono, oggi come allora.
–
Info: http://inventarisierung-der-macht.de