Signore e Signori, autorità civili e religiose,
vorrei esprimervi tutto il mio ringraziamento e la mia gratitudine per la scelta compiuta della vostra Università di farmi l’onore di attribuirmi la laurea honoris causa. La gratitudine è onor più grande per il fatto che avete voluto così onorare un cittadino di un altro paese e di un paese europeo. Vorrei assumere questa scelta come un segno di quel dialogo intermediterraneo che deve diventare il nostro dovere intellettuale, culturale e civile. Grazie



Vorrei, allora, parlarvi del nostro rapporto, cioè del rapporto trai popoli dell’Europa e del Mediterraneo. Lo farò da un punto di vista particolare, un punto di vista spesso ignorato ma che io invece considero decisivo, e che guarda a ciò che sta sotto questo nostro rapporto. E cosa sta sotto? Sta sotto, e lo condiziona, il modello economico e sociale dell’Europa. Io credo infatti che esista una relazione molto stretta tra la natura sociale di questo modello e il rapporto che si determina tra l’Europa e il mediterraneo. Un’Europa rivolta al mediterraneo è un’Europa che vuole parlare la lingua della pace, della convivenza tra i popoli, del dialogo interreligioso e della cooperazione economica. E’ un’Europa che si propone di contribuire a costruire una civiltà del dialogo, una civiltà in cui venga perseguito l’obiettivo del pieno sviluppo della persona umana, l’obiettivo dell’uguaglianza tra gli uomini. Ma, per farlo deve perseguire questi stessi obiettivi al proprio interno. 



Per questa ragione affronterò qui con voi il tema del modello economico sociale europeo. Ve lo vorrei proporre come una parte della questione mediterranea, la parte che compete direttamente all’altra sponda, rispetto alla vostra. Quella che ci si presenta così innanzi è oggi una realtà politica assolutamente schizofrenica nella quale continua l’esodo dalla politica di parti crescenti della popolazione, nelle più diverse forme. Almeno questo, una realtà schizofrenica, è ciò che appare. Da un lato, infatti, il timone del governo dell’economia, dell’assetto della società e dei rapporti sociali è fermo, immobilizzato sulla rotta dell’austerità, che, come sapete, è una politica antipopolare. Esso è tanto più fisso e immobile quanto la sua tesi dichiarata, il perseguimento dell’obiettivo della riduzione del debito, continua ad essere falsificata. Dall’altro lato il rapporto tra le forze politiche medesime, e nelle loro relazioni con le istituzioni, è all’insegna dell’instabilità, dell’affannosa ricerca della risposta alla domanda su cosa accadrà domani. 



Lo stesso futuro dell’Europa comunitaria è divenuto incerto. La politique politicienne corre sulle montagne russe, incerta e instabile, quanto certo e stabile è il governo dell’economia. In questa voragine sprofonda la democrazia fino a scomparire. Se si guardano questi sommovimenti della politica politicante alla luce di discriminanti sociali e programmatiche di fondo, la schizofrenia si rivela solo apparente. Sarebbe possibile, infatti, poter vedere una ratio in questa pazzia della politica. Purtroppo si tratterebbe di una ratio nient’affatto rassicurante. Ciò che emerge è, infatti, una linea di tendenza che vorrebbe guadagnare organicamente l’adesione della seconda (cioè il gioco politico, la natura dei suoi soggetti, la soluzione del problema delle governabilità) alla prima (cioè la natura costituente del capitalismo finanziario, il carattere strutturale e ideologico, dunque permanente, delle politiche di austerità). 

Tutto ciò se si realizzasse, sarebbe la fondazione di un sistema compiutamente oligarchico. Intanto il fronte dei governi che sceglie la ristrutturazione dell’economia capitalistica per farne la spina dorsale dell’Europa reale, si allarga e si consolida malgrado la crisi sociale e il disagio delle popolazioni. Il prezzo sociale che i popoli europei pagano in modo crescente è senza precedenti. In particolare nei Paesi dell’Europa mediterranea la crisi economica dà luogo ormai a una profonda crisi della coesione sociale. I livelli di disoccupazione sono diventati socialmente insostenibili. Le povertà divorano parti della società che mai le avevano conosciute o da cui si erano convinte storicamente di esserne divenute estranee. Ma, in Italia, per citare il mio paese, a disegnare il carattere di classe della riorganizzazione dell’economia in atto, c’è il fatto incontrovertibile che aumentano i poveri, ma, contemporaneamente, aumentano pure i ricchi. Nel 2012, ultimo anno a disposizione per questi dati, i ricchi il cui patrimonio stimato supera il milione di dollari, sono aumentati di 127mila unità, tanti quanti gli abitanti di una media città. I milionari d’Italia, in un anno centrale della crisi, sono dunque aumentati di circa il 10% e, tra loro, i più lo sono diventati perché è salito il valore del loro patrimonio investito in titoli e azioni. 

Non c’è nulla di innocente in tutto ciò. Sono state le banche centrali che, con le loro azioni, hanno fatto crescere la Borsa e i prezzi dei bond, sicché chi aveva patrimoni si è arricchito, mentre a scendere erano i salari. Alle nuove generazioni viene proposto un destino che oscilla tra disoccupazione e precarietà. La ripresa se c’è è flebile, debolissima e, soprattutto, senza occupazione. L’invocazione dei governi, come in un rituale senz’anima, della crescita lascia il posto, nella realtà, a una deflazione dell’economia che segue quella dei salari. In questo modello sociale non c’è posto per nessuno, se non per chi sia utilizzabile al fine del suo funzionamento. Al suo funzionamento sono ora necessari sia il processo di spoliazione, com’era nel colonialismo, sia lo sfruttamento, com’è tipico di ogni capitalismo. Perciò anche l’accumulazione primitiva entra far parte dell’accumulazione del nuovo sistema capitalistico finanziario globale. Il processo migratorio in atto è un processo storico. Esso è, da un lato, l’espressione drammatica questa realtà e, dall’altra, la cartina di tornasole della sua natura, di brutale spoliazione e sfruttamento: quel che può usare, il sistema usa; il resto diventa scarto, cosa da buttare. Le persone vengono trasformate in cose: usa e getta. Il Mediterraneo da mare di pace e di dialogo viene trasformato, dal meccanismo economico dominante, in mare di morte, mentre sulle sue coste si affaccia ciò che Papa Francesco ha chiamato “la terza guerra mondiale a pezzi”. 

La fraternità e la umana solidarietà vivono fuori dal mercato. Laddove donne e uomini di buona volontà prestano cura, salvano vite umane, accolgono profughi immigrati, altrimenti condannati solo al dolore e alla morte. Lampedusa, un’isola tra l’Italia e la costa del sud del Mediterraneo, è diventato meritatamente il simbolo di questa storia di amore per l’altro e di accoglienza umana. Sono queste le esperienze che ci parlano di una possibilità di futuro diversa da quella che i governi, gli stati e l’economia di mercato stanno costruendo. Infatti sono proprio gli Stati ad aver affermato, come generale, il modello concorrenziale dell’impresa e del mercato e ad averlo introdotto in tutte le dinamiche sociali.  

Quando l’individuo viene definito e considerato un capitale umano (sottolineo capitale), cosa viene alla luce se non la tendenza ad assumere pienamente l’uomo dentro i meccanismi del mercato e della concorrenza? Così non viene più cercato soltanto il consenso alle politiche di un governo, ma si cerca di plasmare il soggetto individuale, la persona, fino a configurare la conquista, da parte del capitale, di un nuovo orizzonte antropologico. L’individuo come, d’altra parte, lo Stato, passando per i corpi intermedi, tutti risulterebbero allora regolati da un unico sistema pervasivo che non è più solo un modello economico, bensì il governo di tutte le attività umane secondo il principio della concorrenza. Ma questo terribile meccanismo è messo alla prova a sua volta dalle contraddizioni interne ed esterne da cui l’Europa reale è attraversata, sia per il suo essere immersa in un mercato globale nel quale sono presenti in forza protagonisti conflittuali, sia per le ragioni sociali che al suo interno scavano sia la crisi che la risposta che i governi danno alla crisi. 

Non è solo, quel che sta generandosi, il residuo che sempre, in ogni caso, resta fuori da ogni meccanismo di integrazione subalterna; qui c’è di più e c’è un potenziale di ribellione e di rottura sociale che le mille forme di collera e di resistenza indicano già ora esistente, quand’anche in larga misura sommerso. Del resto la demolizione della democrazia in Europa e la costituzione, al suo posto, di un’Europa oligarchica, rispondono all’esigenza della classe dirigente di governare una politica economica e sociale altrimenti impossibilitata a guadagnarsi un consenso di massa. Da qui il conflitto tra la governabilità e la società civile. La classe dirigente confida nell’incapacità per ora dei movimenti di riuscire a rovesciare le tendenze in atto. L’incompatibilità di fondo tra il capitalismo finanziario e la democrazia in Europa ha nelle politiche di austerità e neoliberiste il campo concreto della sua conferma, la sua causa prima. Nella crisi la nuova borghesia internazionale ed europea ha alzato l’asticella della sfida, è passata dalla pars destruens delle conquiste sociali storiche da parte del neoliberismo nell’ultimo quarto di secolo, alla pars construens di un nuovo modello sociale neomercatilista a vocazione totalitaria nel quale è celato un nocciolo duro di classe, cioè il ritorno dei rapporti sociali all’Ottocento, quell’Ottocento che ha preceduto la nascita del movimento operaio: appunto si vorrebbe il gran ritorno. 

Questo processo confida, come ben sappiamo, sull’eclissi nella scena politica della rappresentanza del suo storico avversario, il movimento operaio e le sue organizzazioni. Confida anche nell’oscuramento, nella realtà sociale e nelle culture diffuse, di una lettura della società in termini sociali e, più in generale, dell’oscuramento delle culture critiche. Per fortuna non è detto che i potenti indovinino sempre le loro previsioni. Questa volta ci sono buone ragioni per credere che in Europa stiano prendendo corpo esperienze sociali, di protagonismo dal basso e di movimenti che possano determinare una situazione più aperta ad esiti diversi da ciò che si poteva pensare fino a qualche tempo fa.  

Ha scritto il direttore de Le Monde diplomatique: “Le rivolte si moltiplicano. Vi contribuisce il discredito dei responsabili politici, alimentato dalla loro incapacità di proporre al Paese una qualunque prospettiva. La mediocrità della loro ambizione personale non migliora la situazione, tanto più che la stampa diffonde e amplifica strepiti e litigi. (…) Un clima simile alimenta un neopujadismo che si allarga sempre più al margine delle formazioni tradizionali, con scoppi intermittenti di collera e brontolii continui nelle reti sociali. La spaccatura fra politici ed elettori ha a che vedere da una parte con l’americanizzazione della vita politica francese: i partiti principali sono ormai semplici macchine editoriali, cartelli di notabili locali alimentati solo dalla linfa di una popolazione anziana. (…) In questo periodo, mentre il fatalismo e l’attesa di una inversione di rotta nella corrente dominante ritardano il lavoro della riconquista intellettuale e quello della mobilitazione politica, non c’è altra soluzione in definitiva, che la coalizione sociale fiduciosa e vincente”. Il testo si riferisce alla Francia e tuttavia si può estendere all’intera Europa. 

L’Europa non è però solo il deserto che chiamano pace. E’ anche altro. Una moltitudine di esperienze sociali la popolano, seppure nella frammentazione e nella scarsità di relazioni tra di loro. Fenomeni di resistenza, di opposizione sociale e di confronto si ripresentano nelle situazioni più diverse e i conflitti di lavoro non sono derubricati. Si formano comunità di lotta, di solidarietà, di relazioni sociali ricche che ripropongono, nella realtà concreta, grandi temi ora negati dalla politica come le domande di autogestione e di autogoverno. In rapporto ad esso vengono a proporsi anche interessanti ragionamenti su una nuova politica, dalla coalizione sociale al comune. E quando questi movimenti raggiungono la massa critica che li configura come un evento, allora prendono forma nuovi soggetti politici, ben oltre la tradizione della sinistra politica. La nascita di Syriza e di Podemos ne sono state la dimostrazione. Esse sono nate infatti da dei moti sociali: da un lato, la lunga e drammatica mobilitazione greca di piazza contro le politiche della Troika e, dall’altro, il costruirsi in piazza attiva degli Indignati di Spagna. 

La straordinaria vicenda di quelle che sono chiamate le primavere arabe sono state la testimonianza di quel che si può accendere di speranza e di visione di un futuro diverso nei popoli. La vostra esperienza dice che l’esito drammatico che parecchie di loro hanno avuto non è obbligato. In ogni caso queste rivolte democratiche sono destinate ad attraversare il mediterraneo per un ciclo intero. L’esperienza di Parigi, l’improvvisa animazione di Place de la République, la sua prolungata durata, la creatività che in essa si è espressa, lo testimonia. Nuit debout è un’esperienza e un segno dei tempi. E’ accaduto ieri, può accadere domani. Se le possibilità di rivolta animano nel basso la società civile europea, anche nel campo delle idee, della formazione del pensiero pubblico, nel muro che il pensiero unico ha eretto in difesa del nuovo capitalismo, in difesa del sistema economico sociale che esso costruisce e in difesa delle politiche degli stati e dei governi, in quello stesso muro si stanno aprendo delle crepe.  

È come se la pesante coltre del pensiero unico si fosse assottigliata per la forza dei processi reali che lo hanno falsificato e lasciasse fuoriuscire pensieri critici. Il fenomeno non è del tutto nuovo. Nel mondo dell’accademia (i citatissimi premi Nobel), gli economisti di scuola keynesiana e del pensiero critico, e non solo loro, da tempo svolgono tesi critiche, in particolare nei confronti delle politiche di austerità e, più in generale, di quelle con le quali i governi e l’Europa della Troika hanno affrontato la crisi. 

Ma ora il passaggio è più impegnativo, e per due ragioni forti. La prima è di merito: la critica investe adesso il motore principale dei processi in atto e investe l’intero Occidente. La seconda riguarda la cattedra da cui proviene la critica, che si situa ora anche dentro istituzioni che hanno svolto, e svolgono, funzioni cruciali di governo dei processi economici e politici mondiali. In uno studio finanziato dalla Nasa e guidato da un grande matematico, Safa Motesharrei, si mettono a confronto le crisi di grandi civiltà antiche, nelle diverse parti del mondo, per avvertire che anche i loro sovrani hanno creduto di poterne dominare i processi, finché qualcosa è avvenuto che le ha fatte deragliare. Si può ovviamente dissentire, in tutto o in parte, con le comparazioni e le analogie così ricavate; quel che colpisce è l’individuazione (nello studio della Nasa, insisto) delle due cause che, congiuntamente, determinerebbero la crisi delle civiltà (se quelle non venissero fronteggiate e rimosse). Le due cause vengono individuate nell’impoverimento delle risorse disponibili (è stata la tesi principe dell’ecologismo) e nell’esplosione della diseguaglianza sociale con la violenta stratificazione della società in una realtà sociale formata dalle élites e, dall’altra, in quella delle popolazioni impoverite (è stata la tesi della lettura di classe della globalizzazione capitalistica e della sua crisi). 

La tesi, che lo studio propone, è che la crisi di civiltà si genera quando il controllo delle élites blocca la ridistribuzione della ricchezza prodotta, generando un collasso del lavoro salariato e degli strati popolari, causa a sua volta inevitabile del declino della civiltà. Secondo lo studio della Nasa, quindi, l’Occidente sarebbe destinato a crollare, come gli imperi antichi, per lo squilibrio devastante nella distribuzione delle ricchezze. Si apre così un varco nel pensiero delle classi dirigenti dal quale può passare l’insostenibilità (per la civiltà, non solo per una sua parte) di questo livello di diseguaglianza. Non vi propongo di aderire alla tesi ma più semplicemente di constatare, anche alla sua luce, che il pensiero unico, quello a sostegno di questo modello economico e sociale, non è più unico perché esso è messo in discussione all’interno delle sue stesse classi dirigenti. Ora la globalizzazione è indagata criticamente persino nelle istituzioni che da essa sono state fondate o che ne hanno costituito i luoghi delle decisioni strategiche. Qualcosa di importante sta cambiando. Proprio il Wto pubblica uno studio che pare acquisire come reale la contraddizione tra, da un lato, la natura economico-sociale della globalizzazione e le forme e le pratiche di governo che l’hanno accompagnata fin qui e, dall’altro lato, la questione sociale. Il titolo dello studio è già sufficientemente indicativo: Delocalizzazioni, occupazione: come rendere la globalizzazione socialmente sostenibile?. Avrebbe dovuto aggiungere “in Occidente”.  

Già, come fare? La domanda rimbalza in una ricerca del Fondo Monetario Internazionale. La domanda, così come la riformula la ricerca del Fmi, può sembrare retorica, ma è la fonte da cui proviene che mostra come ormai più di una crepa mini l’ortodossia del “Washington consensus”. Essa infatti così recita: “La globalizzazione abbassa i salari e trasferisce all’estero i posti di lavoro?”. L’occupazione e il salario (cioè il lavoro) sono stati il ventre molle della globalizzazione capitalistica, prima, e delle risposte delle classi dirigenti occidentali alla crisi, poi. L’esito è stata una devastazione di civiltà, la crisi della coesione sociale. Le classi operaie dell’Europa e degli Usa, ma anche i ceti medi, ne stanno pagando il prezzo altissimo non avendo saputo, o potuto, contrastarne il processo. La sconfitta del movimento operaio ha preceduto la mutazione genetica delle sue organizzazioni politiche e sociali che hanno cambiato natura. Nella crisi e nella ristrutturazione capitalistica si manifesta ora l’incompatibilità tra il capitalismo finanziario globale e la democrazia a cui, dall’alto, la rivincita delle élites dà come risposta la costruzione, al suo posto, di un regime oligarchico. È quel che è accaduto e che sta accadendo in Europa. 

Da cosa sono provocati, allora i pensieri critici a cui ci siamo riferiti? Probabilmente l’affacciarsi di riflessioni critiche negli stati maggiori è suggerita dall’instabilità delle relazioni tra le grandi aree geopolitiche del mondo. Non è certo pacifico il rapporto dell’Europa, a Ovest, con gli Usa, come testimonia la vicenda del trattato sulle relazioni commerciali e non lo è, ad Est, come ha dimostrato la capacità della Russia di Putin di svolgere un ruolo di potenza riemergente dalla Siria alla Crimea. Da Sud, il Mediterraneo ci dice che non può più essere ignorata quella frontiera né dal punto di vista economico né da quello di civiltà, perché essa riguarda ormai direttamente il destino dell’Europa. Gli antichi romani chiamavano barbari i popoli che stavano fuori dal confine. La storia ci ha insegnato che senza il loro avvento non ci sarebbe stata la civiltà europea. Capita sempre quando gli esclusi diventano i protagonisti della storia. E’ allora che nasce una nuova civiltà. Ora noi possiamo chiamare barbari tutti coloro che stanno fuori dai confini del nuovo potere. Tutti coloro che, per le ragioni più diverse ne stanno fuori, sia perché rifiutati, sia perché esclusi, sia perché irriducibili, sia perché diversi, perché portatori di umanità, proprio quell’umanità che il sistema nega. 

Tra questi i migranti che drammaticamente si affacciano sull’Europa sono i nuovi barbari, per antonomasia. Essi sono i protagonisti del fenomeno storico che si annuncia. Solo dalla Siria si preparano a partire 5 milioni di sfollati. E’ la più grave crisi di rifugiati dalla seconda guerra mondiale, ha detto il commissario Ue per l’immigrazione. Cause profonde alimentano un fenomeno che, secondo gli studiosi, non si arresterà prima del 2050 (come lo sapranno non è facile da capire). La prima causa è la guerra, sono i conflitti terribili che sconvolgono il Medio Oriente, l’Asia, l’Africa, a loro volta eredità (seppure non esclusiva) dura e complessa di tutti i colonialismi, gli imperialismi, le politiche di potenza.  

Così le migrazioni saranno uno dei tratti distintivi del nostro tempo, ampliate da altre concause: le crisi umanitarie in corso; le politiche delle grandi potenze economiche sul cibo, la nutrizione, le coltivazioni; cambiamenti climatici; il deficit demografico dei paesi del Nord a cui si oppone un Sud giovane, povero e senza occupazione. La destra xenofoba cresce particolarmente nei paesi europei saldando la paura dello sconosciuto, l’immigrato, con la crisi sociale prodotta dalle politiche di austerità e favorita culturalmente dall’uscita di scena nel campo della politica e delle politiche statuali, della critica al capitalismo. 

Al contrario chi pensa che l’umanità di fronte alle nuove sfide o si salva insieme o insieme corre verso la catastrofe, in Europa deve pensare al Mediterraneo come ad un confine fatto per essere attraversato, come un luogo da abitare e come un ponte. Il luogo della traduzione, per dirla con Étienne Balibar. E contemporaneamente deve saper far vivere in Europa i germi, le sementi di una società guidata dall’obiettivo dell’eguaglianza. L’avvento dei migranti che oggi è avvolto nella tragedia può diventare un’occasione. Se si deve parlare di un processo costituente dal basso dell’altra Europa possibile, non c’è leva che valga questo avvento. La tragedia umana che vivono i migranti chiede vicinanza, solidarietà e accoglienza, in primo luogo. Non si sarà mai fatto abbastanza su questo terreno, né nella realtà sociale, né nella rivendicazione agli Stati di cambiare decisivamente registro per disporsi efficacemente all’accoglienza. Ma per realizzare un  processo positivo, per avviare un nuovo corso è necessario sfondare il muro dell’emergenza, per rivolgersi al prima e al dopo l’accoglienza. Prima, andando alla radice strutturale, civile, culturale, dei vissuti di massa del fenomeno e dopo, per passare dall’accoglienza all’inclusione, lì dove si possono riannodare i fili sociali della libertà e dell’eguaglianza contro quelli della spoliazione e dello sfruttamento generati dalla rivoluzione capitalistica. Su quel “prima” il vuoto della politica è impressionante, tanto impressionante da indurre a chiedere soccorso alla profezia. Se andiamo a fondo di questo vuoto, troviamo la parola di papa Francesco che prende di petto la questione. Il Pontefice ha detto che “respingere gli immigrati è un atto di guerra”. La frase del papa potrebbe essere l’inizio di un discorso della buona politica e il terreno del rafforzamento del dialogo interreligioso. Ma se la profezia non si invera in una prassi estesa e partecipata e in una produzione culturale capace di diventare senso comune, capace cioè di farsi popolo, la realtà ci espone ad una nuova distruzione di umanità di fronte ad un capitalismo così totalitario e senza freni: il capitalismo dello scarto. 

Ma allora la politica, che in questa Europa reale è morta come “autonomo progetto di società” è chiamata a rinascere, pena l’avvicinarsi di una guerra civile. Le grandi culture politiche che hanno dato vita alla politica nell’era moderna devono essere interrogate a fondo. La cultura liberale nasce dall’idea dell’eguaglianza del cittadino. Ma come risponde al problema ora che lo straniero entra stabilmente nella città? Il movimento operaio nasce per andare oltre l’idea dell’eguaglianza soltanto politica e per proclamare l’eguaglianza sociale, liberando l’uomo dallo sfruttamento e dall’alienazione.  

Il proletariato, storicamente, dovrebbe compiere quest’opera. Ma oggi chi è il proletariato? E come si conquista l’unità sociale? Sulle nostre bandiere, dalla Rivoluzione francese in poi, sta scritto: “Liberté, Egalité, Fraternité”. Tutte tre le parole non godono oggi di buona salute. Non sapremo dire chi sta peggio. Ma quella lasciata cadere da più lungo tempo è certamente “Fraternità”. Di fronte alla desertificazione della politica di oggi, l’immigrato e l’immigrazione si ergono di fronte a noi come problemi quasi irrisolvibili, quando dovrebbero e potrebbero essere invece una risorsa per il riscatto e per la liberazione dal giogo che sulla vita di ognuna e di ognuno di noi produce il capitalismo finanziario globale, in tutte le sue manifestazioni quotidiane. 

L’arrivo dei “barbari” dovrebbe essere considerato provvidenziale, nei tempi e nei luoghi dove si consuma una crisi di civiltà. La buona coscienza ci porta spesso a parlare di un futuro abitato necessariamente dal meticciato, da una realtà multietnica e multi-religiosa. Ma il drammatico presente contraddice questa previsione. Ancora una volta nella crisi siamo di fronte, per il futuro dell’Europa, ad un aut-aut: o si realizza quel “nuovo mondo possibile” o si va verso una guerra civile, verso la catastrofe. La messa all’opera di una pratica sociale da cui possano nascere nuove e diverse realtà sociali, quelle dell’autogoverno e della solidarietà, e la ricerca teorica e culturale di un ordine nuovo, di una nuova società, non possono più essere rinviate. Voglio augurarmi che questo possa diventare il nostro cammino comune.