Il mondo in cui viviamo ha visto l’avanzata progressiva della cultura delle libertà e dei diritti dell’individuo. I critici più severi arrivano a parlare di una “dittatura” che ci assedia: “È sufficiente che un individuo o un gruppo li invochi per bloccare qualunque opinione contraria”.
Il rilievo polemico è ricavato dal recente saggio di Marcello Pera Diritti umani e cristianesimo. La Chiesa alla prova della modernità (Marsilio 2015, p. 72). Per tentare di chiarire cosa si nasconda dietro il contrasto tra i due termini dello storico dissidio, il volume propone un itinerario scandito in diversi momenti. Punto di avvio è mostrare come la coscienza religiosa ha reagito all’emergere del trionfo dei diritti moderni, quando l’idea della persona depositaria di prerogative invalicabili da ciò che è esterno allo spazio della sua coscienza ha cominciato a farsi strada nelle élites intellettuali dell’Occidente europeo, infiltrandosi nei modelli di organizzazione giuridica della società a partire dalla svolta rivoluzionaria del Settecento illuminista. Si è trattato di un mutamento profondo di prospettive, percepito come un trauma dai tutori dell’ordine politico sacralizzato che aveva dominato la storia della cristianità per un lunghissimo arco di tempo plurisecolare. Nella logica del pensiero tradizionale, la fede stava al centro del mondo umano. Il potere discendeva direttamente da Dio e arrivava a plasmare non solo il codice delle norme morali, ma anche il linguaggio prescrittivo delle leggi positive. “Magistrati” e “prìncipi” erano gli strumenti attraverso cui il piano di salvezza si dispiegava all’interno della realtà temporale e conduceva gli uomini verso la realizzazione del loro fine ultimo. La vita si modulava su un ventaglio di compiti e doveri non scelti per inclinazione spontanea dal basso, ma oggettivamente richiesti da quella che appariva come la struttura vincolante della realtà delle cose, riflessa nella condizione naturale in cui si concepiva innestato ogni frammento dell’esistente, dalla coscienza dell’io andando fino alla natura della famiglia, ai contenuti dell’educazione, alle regole primarie della condotta civile.
Questo impianto di integrale subordinazione della vita umana al piano divino si può condensare nel principio della cristianità egemonica, fondata sull’alleanza di “sacerdozio” e “impero”. Sembrano concetti di una lontana archeologia medievale, ma — come documenta Pera nelle parti iniziali del suo libro — è la mentalità che impregna ancora le prese di posizione dei papi dell’Ottocento, come Pio IX e Leone XIII. La cultura cristiana attaccata ai fasti del suo glorioso passato e il magistero dei massimi vertici della Chiesa presentivano lucidamente che l’edificio costruito sull’unanimismo cristiano non poteva reggere l’urto del nuovo spirito di tolleranza esaltante l’autonomia di scelta dell’individuo e il valore intangibile dei suoi diritti, e così si trovarono sospinti, almeno fino agli inizi del Novecento, a privilegiare la difesa a oltranza del primato che la fede intesa come strada obbligata per il destino del mondo aveva guadagnato assorbendo da ogni lato il tessuto dell’esperienza dell’uomo.
La lotta sostenuta dal tradizionalismo cattolico contro l’ideologia politica dei diritti e delle libertà è un fatto reale, anche se risulta riduttivo limitare a questo scomodo aspetto la storia della presenza della Chiesa nel crogiolo da cui è nata la nostra società contemporanea. Si entra decisamente nell’opinabile, d’altra parte, quando Pera inizia a delineare l’evoluzione dello spirito conservatore del cattolicesimo di Antico Regime inoltrandosi al di là delle tempeste di Sette-Ottocento.
Al centro del quadro si installa la tesi del cedimento autolesionista. Ne sarebbe frutto evidente la teologia politica o morale in senso lato degli ultimi cinquant’anni, già dispiegata in nuce nei pronunciamenti del Vaticano II, portata poi a sviluppo ulteriore nel trend prevalente del magistero papale a noi più vicino. Quello a cui si è assistito nelle cerchie più autorevoli della Chiesa viene equiparato a una progressiva liquefazione della consapevolezza, prima del tutto limpida e granitica, del contenuto “eversivo” della cultura dei diritti. La sirena del loro fascino ha contagiato, nello stesso momento in cui le corrodeva dall’interno, le forme dell’autocoscienza cristiana. Camuffata sotto le nobili vesti della tutela del bene del soggetto umano e della promozione della giustizia sociale, l’emancipazione dell’uomo moderno ha fatto venire alla luce le (solo presunte?) radici evangeliche della sua sbandierata dedizione per la sorte della civiltà del pianeta globale. E ribattezzandosi in senso cristiano, capovolgendosi su sé stessa con pirotecnica riconversione totale, l’apologia dei diritti umani è diventata parte integrante del compito di servizio, per la costruzione di un nuovo umanesimo, a cui la fede si sente oggi interpellata rispondendo al bisogno che incontra lungo il cammino. Si va sempre di più verso la fusione fra Chiesa e mondo moderno, in una ricerca di “convergenza”, di dialogo, se non di “coincidenza” tra i due ambiti, che tende ad annullare tutte le spigolosità del rapporto tra religione e realtà della vita sociale, presentando della prima un’immagine molto addolcita, al ribasso, che svuota la pretesa cristiana rispetto a una sfera umana da cui si espungono il negativo e il dramma del male irrisolto. Invece di salvare la realtà malata, il desiderio di portare l’uomo al contatto con una fede ragionevole “contraddice” nella sua sostanza, così scrive l’autore, la natura dell’evento cristiano.
L’unica via di uscita, ammonisce Pera, è tornare a riconoscere nella cultura dei diritti, come l’avevano dipinta i fieri avversari dei secoli scorsi, una gigantesca tentazione diabolica, architettata come esca proprio per “scardinare il cristianesimo”, sostituendo alla proclamazione fedele della visione antropologica su cui l’avevano fondato i suoi veri maestri l’equivoca esaltazione dell’uomo che vuole innalzarsi davanti a Dio e finisce per respingerlo “fatalmente” dal suo orizzonte. Il tragico errore di prospettiva, dilatato fino alla scelta di inserirsi nei meccanismi delle moderne società democratiche dell’Occidente, starebbe nella resa acritica alla parabola della secolarizzazione, che condanna la coscienza cristiana all’irrilevanza, facendola scivolare nel limbo di una esigua minoranza creativa.
Dunque l’inganno del soggettivismo elevato a regola aurea di un diritto autocostruito costituisce, nella logica della denuncia di Pera, un tradimento che ha alterato la continuità della dottrina, sfigurandola. Ora, che ci sia stata discontinuità, è fuori discussione. Ma da qui a ritenere che lo sviluppo e il cambiamento di una posizione umana siano solo fattori di snaturamento, passa una bella differenza. Senza sviluppo, il pensiero cessa di essere vivo e si condanna alla ripetizione dei suoi schemi irrigiditi. Se persino l’articolazione del contenuto dogmatico della fede è stata l’oggetto di un processo di messa a fuoco disteso nel tempo, a maggior ragione deve mantenersi aperta a un lavoro continuo di approfondimento la sua interpretazione, che poi si organizza in un giudizio sulla fisionomia del presente in cui la coscienza cristiana si immerge per portare il contributo di una proposta originale. Reagendo alle circostanze che si trasformano, lo sviluppo dell’autocoscienza cristiana include inevitabilmente anche il rischio di tentare strade nuove, e ogni cambiamento che si produce espone a perdite, rinunce e fallimenti, insieme alla possibilità di guadagni sostanziali. Restare fermi non è in ogni caso la scelta migliore.
In particolare, le metamorfosi della storia più recente hanno trascinato con sé, contrapponendola ai guasti creati dalle negazioni del passato, l’esigenza di restituire il massimo spazio possibile alla salvaguardia dei diritti inerenti alla vita di ogni singolo essere umano e alla comunità umana nel suo insieme, su uno sfondo di libertà e di rispetto per ogni attore della collettività sociale. La fede ha dovuto fare i conti con questo imponente affioramento di una novità straordinaria. Non si è sottratta al confronto, e dopo i rifiuti degli inizi ha accettato di correggere molti dei suoi punti di vista preesistenti, adattandosi a dimensioni che prima non si potevano nemmeno lontanamente immaginare. Vedere in questo mutato atteggiamento solo un colpevole arretramento, impedisce di misurare l’impatto che la dialettica con il progresso moderno ha esercitato sulla natura della coscienza religiosa, così come i modi secondo cui questa ha contribuito a segnare il volto specifico della modernità occidentale. Saremmo nelle condizioni di non poter fare altro che assolutizzare l’elemento della frattura e dello scontro. Alla fine, ci si ritroverebbe impigliati nella trappola della demonizzazione reciproca, allineandosi con l’insidioso pensiero dei fautori del progressismo unilateralmente dualista e laicizzato, che vede la religione e il mondo moderno come due universi da sempre in rotta di collisione, che si respingono a vicenda e vanno tenuti separati per impedire di farli confluire in una storia comune.
Esaltando il conflitto antimoderno si vanifica la grande intuizione ratzingeriana, che ha cercato di andare a riscoprire da dove è venuta fuori e cosa ha nutrito la svolta della secolarizzazione, cioè di quella “rivoluzione” che, per difendere l’uomo e soddisfare l’ampiezza del suo desiderio, ha poi imboccato la strada della polemica contro il religioso.
Pera riprende ampiamente Ratzinger, ma non lo segue nella lettura dell’approdo all’ultima modernità, che costringe a oltrepassare la barriera dell’antagonismo ostile. Ratzinger (insieme a quanti accettano di stare nella linea della sua prospettiva storica) individua al fondo della posizione illuminista un nucleo positivo di verità che non sono tanto una minaccia, quanto piuttosto un sorgente di sfida, da cui il cristianesimo può essere aiutato a ritrovare una via più autentica per parlare all’uomo di oggi, tornando a “giustificarsi” davanti al tribunale della contemporaneità. Lo spalancamento al tesoro prezioso della libertà di coscienza e alla promozione della dignità della persona umana può infatti essere visto come la proiezione, sul piano filosofico e politico, di una stima per il valore del soggetto umano che, prima della svolta sette-ottocentesca, era rimasta compressa sotto la coltre di griglie concettuali di segno pessimistico e autoritario. L’amore per il bene dell’uomo è invece tutto da recuperare per la testimonianza credibile di una fede, come quella cristiana, che vuole la salvezza del mondo e predica la resurrezione della carne, riconciliando la grazia con la fragilità della natura. Nella sua radice essenziale, il senso della dignità e della libertà dell’uomo scaturisce dal riconoscimento della sua sacralità in quanto essere creato e redento da Dio, che riposa sul fondamento stesso della visione giudaico-cristiana. Poi, certo, tutto dipende da come questo principio di sacralità è svolto e messo in rapporto con il governo dell’ordine politico della società umana. La libertà può essere fraintesa e il diritto degenerare in arbitrio alienante. Ma senza libertà e senza diritto viene meno il baluardo dell’io che si misura con i dati concreti della storia che vive e decide del senso del suo cammino nel mondo (alle intuizioni in chiave teologica di Ratzinger dà ora man forte il quadro tracciato da Ulrich L. Lehner, The Catholic enlightenment. The forgotten history of a global movement, Oxford University Press, 2016. Lehner era stato anche curatore, nel 2010, di A companion to the Catholic enlightenment in Europe. Ma questo retroterra più decisamente storico non è preso in considerazione nel volume di Pera).