Eugenio Corti rappresenta un caso singolare nella storia della letteratura italiana degli ultimi decenni.

Snobbato dalla critica ufficiale per la sua vistosa indipendenza ideologica, che lo aveva spinto negli anni Settanta a denunciare senza mezzi termini la reale situazione in Cina e in Unione Sovietica, Vietnam, Cambogia (vedi ora L’esperimento comunista, Milano, Ares, 1991), noto una quarantina d’anni prima per un volume autobiografico dal titolo I più non ritornano, Corti è approdato nel 1983 a un romanzo di 1200 pagine che ha incontrato di colpo un incredibile successo di pubblico. Il Cavallo rosso ha infatti registrato ben 31 edizioni e un e-book nella sola lingua italiana, e traduzioni in otto lingue diverse, alcune delle quali con più ristampe.



Che un impatto di tali dimensioni fosse imprevedibile è fuori dubbio. Tutto sembrava contribuire a un’accoglienza meno che tiepida: il non-allineamento dello scrittore al paradigma intellettuale dominante negli anni 80; le battaglie condotte in favore di una verità che tutti, ma proprio tutti i detentori del potere culturale si ostinavano a non voler vedere; l’ospitalità trovata in una casa editrice semisconosciuta, sempre la milanese Ares, anch’essa dichiaratamente non schierata dalla parte giusta; la conseguente mancanza di battage pubblicitario; la stessa mole del romanzo, presentato in un’austera veste tipografica che prometteva di scoraggiare chiunque. Le cose invece sono andate diversamente, e sarebbe utile riflettere sui motivi per cui centinaia di migliaia di lettori si sono passati parola, infischiandosene dell’assordante silenzio mediatico.

Più di tutto colpisce il fatto che in un clima di presunto realismo, ma di fatto governato da massicce correnti ideologiche, abbia fatto breccia una narrazione arresa all’evidenza del documento e della testimonianza; e una visione delle cose smaccatamente ancorata a una fede tradizionalissima e popolare.

A interrompere la congiura del silenzio che l’élite intellettuale ha spesso perpetrato nei confronti di questo autore, certamente scomodo ma sorprendentemente letto e amato dal pubblico, qualche voce ogni tanto si è alzata. Ma questa volta la voce è decisamente potente. Proviene da un convegno internazionale, promosso congiuntamente dalla Sorbona di Parigi e dall’Università Cattolica di Milano, che ha realizzato la sua prima sessione nell’ateneo francese il 29 e il 30 gennaio scorsi, e che si concluderà il 7 giugno prossimo nell’università milanese. Se le stesse sedi degli incontri non lasciano passare inosservato l’evento, ancora meno possono lasciarlo i relatori chiamati a raccolta: insieme ad alcuni giovani ricercatori, che proprio grazie a un interesse “postumo” ne hanno decretato la persistente attualità, i principali studiosi di Corti c’erano, e ci saranno, quasi tutti.

A qualcuno di quelli presenti a Parigi abbiamo chiesto di tornare a riflettere sull’autore del Cavallo rosso per LineaTempo, nel dossier online che apre il nuovo numero; ad essi abbiamo poi affiancato Alessandro Rivali, recente voce cortiana perché curatore di quelle lettere dalla Russia pubblicate solo l’anno scorso (Io ritornerò. Lettere dalla Russia, 1942-1943, Ares, Milano, 2015); e l’amica Silvana Rapposelli, che ha saputo felicemente isolare un dettaglio della narrativa di Corti mai, ci sembra, sottolineato sino ad ora. 

Ne è uscito un inserto decisamente interessante, che, lungi dal presentarsi come un “bigino” del Convegno francese, ha oltrepassato le intenzioni convogliate nel titolo; interpretandone però lo  spirito, per così dire, storiografico.

Ci spieghiamo meglio. “Le récit par images. Eugenio Corti”, così suona la headline dei lavori alla Sorbona, ben rappresenta due istanze complementari: da una parte quella di esprimere una caratteristica messa sempre in luce dai recensori, e cioè la capacità dello scrittore di trasmettere il suo mondo interiore attraverso  le immagini; in modo tale che il significato che gli stava a cuore, mai scontato e quasi sempre controcorrente, si facesse strada attraverso processi descrittivi e raffigurativi. Attraverso la realtà, insomma, posta direttamente di fronte agli occhi dei lettori. Dall’altra quella di dar voce a un’aspirazione che negli ultimi anni si era fatta pressante in Corti: quella di essere presente nella “cultura delle immagini”, che lo scrittore riteneva essere divenuta la forma rappresentativa ormai vincente, sperimentando una pratica narrativa in cui la componente visiva fosse prevalente. La terra dell’Indio (1998), L’isola del paradiso (2000) e Catone l’antico (2005) vanno in questa direzione.

Se non che questi aspetti, efficacemente compendiati nella sinteticità del titolo, non esauriscono la complessa stratificazione di senso che sta alla base della creatività di Corti; e rischiano di incanalarne la ricezione in binari troppo rigidi. Le relazioni, ovviamente, sono andate oltre; ma la titolazione complessiva tende a indirizzare le aspettative del pubblico verso un registro stilistico o una scelta di genere. Ciò che è emerso da questo simposio, invece, e che ha suggerito di riprendere il discorso in questa sede, crediamo sia stato soprattutto altro. Il fatto, cioè, che un autore platealmente ostracizzato, estraneo a qualunque tipo di promozione massmediatica, pesantemente avverso alla cultura dominante a lui contemporanea, sia stato fatto oggetto unico di un convegno internazionale di tali dimensioni, a soli due anni dalla morte e con il coinvolgimento di un paese che non è la sua patria.

Tutto questo, tradotto nei termini storiografici a cui si accennava prima, vuol dire che si comincia a guardare a quell’autore in una dimensione esterna alla contemporaneità immediata e all’appartenenza geografica; in una parola, in una dimensione “canonica”. Lo si ospita, idealmente e ipoteticamente, all’interno di un canone.

Il che non è una novità, dato che un monumentale percorso saggistico dentro la letteratura italiana già qualche anno fa si intitolava eloquentemente Italica. L’Italie littéraire de Dante à Eugenio Corti (François Livi, Lausanne, L’Âge d’Homme, 2012). Ma avere rilanciato ora questa prospettiva, quando l’inesorabile trascorrere del tempo provvede da sé a fare giustizia di autori e autorucoli; e averla rilanciata in modi accademici così contrastanti con l’indifferenza ufficiale a lui coeva, apre a sviluppi nuovi e a criteri di valutazione tutti da ripensare.

Il dossier proposto da Lineatempo vuole essere un contributo anche in questo senso.