Il secondo romanzo di Alberto Raffaelli (il primo fu il fortunato L’Osteria senza oste, 2014) si muove tra i due poli di Venezia e Marghera, entrambi ben conosciuti dall’autore. Difficile pensare a luoghi tanto vicini e tanto diversi: il primo, centro di incanto e fascinazione senza fine, simbolo per definizione dell’onirico e dell’immaginario, città di artisti, commercianti e viaggiatori; il secondo, negli anni 60 e 70 sede di un impetuoso sviluppo industriale, tanto da diventare uno dei principali poli chimici d’Europa, poi ridotto ad area in gran parte dismessa e degradata. I due luoghi, diversissimi, sono qui accomunati dalla corruzione e dal degrado, i quali colpiscono i piani alti dei palazzi del potere quanto le periferie devastate dall’immigrazione clandestina, su cui fiorisce il malaffare locale. 



Il male, partito dal centro si estende fino ad arrivare ai lembi della laguna, dove un giovane vetraio sta realizzando dodici grandi vetrate in una vecchia fornace abbandonata; lì si consuma la tragica fine di una prostituta albanese. A dipanare l’intricata vicenda è chiamato il vice ispettore Giovanni Zanca, già protagonista del precedente romanzo ambientato fra le colline trevigiane di Valdobbiadene; in realtà, più che protagonista, il poliziotto fa da collante di un mondo dove si affollano vicende e personaggi di ogni tipo, che lo scrittore tiene saldamente in pugno: si va da uffici comunali a corridoi di tribunali, a bar di periferia, dove prosperano personaggi sordidi, che sembrano usciti dalle pagine dei Demoni di Dostoevskij o dal Processo di Kafka; ma altri vi compaiono, come ragazzini cresciuti al margine del malaffare o simpatici mascalzoni, dal sapore picaresco o dickensiano. 



Al centro, splende la figura di Benedetto Zaccaria, il giovane indomito maestro vetraio, autore delle dodici vetrate-quadri che compongono il romanzo, raffiguranti un moderno Giudizio Universale, quasi una rilettura di quello medievale della basilica veneziana di Torcello; un giudizio che non si ferma alla decorazione di una chiesa, ma che si incarna, evolvendosi nella storia. 

Quel giudizio è anche una chiave di lettura del libro, sulla scia delle parole di Papa Francesco riportate in esergo: “quel giudizio finale è già in atto, incomincia adesso nel corso della nostra esistenza. Tale giudizio è pronunciato in ogni istante della vita”. I dodici quadri raccontano storie quotidiane di inferno e desolazione, in cui sembra inabissarsi il destino di tutti i personaggi; ma su tutto scende, “come pioggia gentile”, la misericordia, “una pietà sconosciuta”, che si impadronisce anche dei personaggi più squallidi. L’ultimo quadro li afferra e li comprende tutti e va a comporre i fili della storia, riassumendoli nel personaggio più emblematico, il maestro vetraio, assalito da “un misto di angoscia e di speranza”. 



Alla fine, Sonia, la prostituta moldava che richiama, anche nel nome, l’innocente meretrice di Delitto e castigo di Dostoevskij, gli sorride, mentre sopra San Marco si disegna un cielo “striato da lunghe file di nuvole leggermente arruffate, come solchi di un campo arato da poco. Qua e là brillavano, come piccoli germogli, le stelle”. 

Come nell’Inferno dantesco, il male viene attraversato senza lasciare che esso definisca la vita: lì, l’autore antico voleva narrare, oltre la selva, “il ben ch’io vi trovai”. Qui, dalla finestra spalancata sopra i tetti di Venezia, scorgiamo “un mosaico composto da migliaia di tessere incrociate in un miscuglio di armonia e disordine”, in cui solo uno sguardo aperto al Mistero “che domina l’universo” riuscirà a intuire “una nuova possibilità, una nuova occasione di vita”.


Alberto Raffaelli, “Il maestro vetraio”, Itaca 2016