Nemmeno Verre stesso, forse, avrebbe saputo ricostruire le sue malefatte così dettagliatamente come fa Luca Fezzi, professore di storia romana nell’Università di Padova, nel suo Il corrotto. Un’inchiesta di Marco Tullio Cicerone (Laterza, 2016). Il “caso Verre” ci è noto attraverso le orazioni di Cicerone, che difese gli interessi dei Siciliani contro di lui: il triennio di malgoverno e ruberie criminose viene rievocato da Fezzi anche e soprattutto contestualizzandolo in un’epoca in cui governare e rubare erano azioni quasi sovrapponibili. Verre stesso fu udito, del resto, ripetere che il triennio del suo mandato in Sicilia, terra ricchissima, granaio di Roma, potenzialmente ottima miniera per cospicui bottini, era di necessità suddiviso in tre tappe: il primo anno avrebbe rubato per arricchire se stesso, il secondo per accumulare tanto da pagare gli avvocati difensori, il terzo per accumulare quanto necessario a corrompere i giudici davanti ai quali sarebbe comparso. 



Certo, l’imputato aveva ecceduto, nelle sue abitudini criminali, ogni soglia di quella che chiameremmo la normale tollerabilità: nei capitoli III, L’inchiesta, e soprattutto nel IV, Il quadro dell’accusa, si ricostruiscono tutti i casi più eclatanti fra quelli che, lentamente, diventavano noti a Roma, prima solo nei ristretti circoli dei bene informati, poi via via, in tutta la città: particolarmente clamoroso quello di Publio Gavio, cittadino romano originario del municipio sannita di Compsa. Gettato nelle temibili latomie, fuggì, trovando però riparo a Messina, unica città alleata di Verre, e là catturato proprio mentre si stava imbarcando per tornare nell’Urbe. Orribilmente torturato, percosso con verghe nel mezzo della piazza principale della città, fu infine crocifisso — supplizio servile, indegno di un romano — di fronte allo stretto perché, come disse Verre sprezzante, “morendo negli spasmi di un’atroce sofferenza, potesse constatare che solo uno strettissimo braccio di mare divideva il regime della schiavitù da quello della libertà”. 



Ma accanto al raccapricciante episodio, ce ne furono altrettanti rivelatori di un’indole predace, senza alcun rispetto per le cose divine e umane: lo dimostrano i numerosissimi furti causati da una maniacale bramosia di possesso di opere d’arte, a danno di privati, di prìncipi in visita diplomatica, come nel caso dei figli di Antioco X di Siria, espropriati di un magnifico candelabro tempestato di gemme; né mancarono sacrilegi, come il furto della Diana bronzea di Segesta, dell’Apollo del santuario di Asclepio ad Agrigento, della Cerere di Catania, e di tantissime altre opere più o meno celebri; la maniacale voracità di Verre fu tale che, per dirla con Cicerone, “i mystagogoì, cioè le guide che di solito accompagnano i forestieri nella visita alle principali opere d’arte (…) hanno ormai invertito il procedimento della loro spiegazione: infatti, prima spiegavano cosa c’era in ciascun luogo, ora invece spiegano che cosa è stato portato via da ogni luogo”.  



Tale è il quadro, notoriamente tremendo, della carriera criminale di Verre, che noi possediamo, però, attraverso le parole del suo accusatore Cicerone. Ma, da storico, Fezzi, nella Conclusione, riesce a dare una valutazione più problematica e non esente da ombre del caso giudiziario: sussiste infatti “l’impressione (…) che l’indagine ciceroniana propriamente intesa abbia presto ceduto il passo all’organizzazione, e, forse, alla manipolazione delle prove” (p. 203). Non a caso, gran parte delle informazioni chiave era giunta in possesso di Cicerone ben prima del suo viaggio in Sicilia, e prima dell’apertura dell’inchiesta stessa: così si spiega anche il termine di soli 110 giorni che l’Arpinate aveva richiesto per il processo. Sicuramente, però, non si può nemmeno eccedere in senso opposto, pensando a un’accusa interamente manipolata. In altre parole, quello di Verre è un caso-limite, indicativo perché quello che oggi sarebbe assolutamente incredibile invece era davvero notoriamente avvenuto e, se anche Verre — ipotizza, ma non ammette Fezzi — fosse stato “il capro — o il verro, il porco — espiatorio di un intero sistema, sono proprio gli arbìtrii permessi da quest’ultimo che l’opera ciceroniana evidenzia” (XIII).