Con La Preghiera della Letteratura (Fazi 2016), lo scrittore e critico letterario Andrea Caterini si cala temerariamente nella temperie spirituale del Giubileo della Misericordia per compiere un personale e difficile itinerario all’interno della letteratura europea. Tra le altre cose, sono chiamate in causa la pietas di Virgilio e la crisi religiosa di Carlo Betocchi, le diavolerie ironiche del Berlicche di Clive Staples Lewis e le sigarette decisive di Calvino in La giornata dello scrutatore, lo scetticismo di Cechov e l’umanità dell’impiegato di Uberto Pasolini in Still Life, fino al dramma dell’uomo ridicolo di Dostoevskij (c’è in effetti una particolare e affettuosa insistenza dello sguardo nella direzione della letteratura russa): Caterini cerca di isolare alcune parole fondamentali del pensiero e della vita cristiana e di indagarle tramite un affondo nel campo di battaglia del testo letterario. Queste parole sono: preghiera, pace, sacrificio, misericordia, bene, santità e fede.
Il nucleo filosofico, l’agile e flessuoso movimento dialettico e morale di questo libro è chiaro sin dal titolo — che le nostre subdole e ingannevoli facoltà cognitive vorrebbero iper-correggere e razionalizzare in “La preghiera nella letteratura”, di fatto trasformando quest’opera di pensiero in ciò che non è: un trattato di stampo teologico, un accorto lavoro di destrezza analitica che però si limiti a raccogliere dai rovi le more più superficiali, per timore di non affondare la mano negli spini. Il libro di Andrea Caterini non è riducibile a un’operazione di questo tipo, non è un manifesto confessionale e neppure un pamphlet di stampo apologetico; la preghiera della letteratura nasce dalla domanda, da un movimento quindi di estroflessione, di uscita acuta dal concetto e dalla norma (come si legge nel capitolo sul bene) al fine di pervenire all’area più luminosa e nascosta del significato della parola, alla “vita della parola” (da un titolo di Oreste Macrí), vista da Caterini come luogo originale della preghiera. Per essere più precisi nella definizione della natura del libro, occorre utilizzare un’immagine dell’autore: l’eclissarsi nella vita della letteratura, nel battesimo nuovo delle parole è un “movimento di circonflessione”, un ripiegamento fisico su di sé affinché sia possibile trovare la giusta inclinazione grazie alla quale si possa far luce — una luce originale, primigenia — nelle gallerie più scure della vicenda umana universale.
Con l’amorosa evocazione dei singoli scrittori e delle vicende di alcuni romanzi (o poesie) all’interno di un territorio semantico ben preciso, Caterini tenta una manovra che, al giorno d’oggi, più che allo scrittore, pertiene al geometra: con pazienza egli educa lo sguardo affinché sia in grado di visualizzare, partendo dalla pianta bidimensionale di un edificio (la pagina di un libro), quali ne siano le colonne portanti, gli elementi architettonici fondamentali, la tensione verticale o meglio, trascendente: gli orpelli decorativi non sono interessanti, è roba per architetti di design, è stile e piatta “vacuità”.
Terrorizzato (p. 29) da ogni vuota gradazione estetica della letteratura, lo scrittore romano sembra voglia rispondere con questo libro alla definizione manganelliana di Letteratura come menzogna, a partire dalla simile titolazione. Caterini dunque, visualizza, vede la verticalità della letteratura, ma il suo interesse è rilevare — in ogni caso e sopra ogni parola — ciò che è citato nell’esergo betocchiano del volume: “Qui non c’è altro, non c’è terra, non c’è che anima, non c’è che lotta tra il bene e il male”.
Non si dà un’indagine sull’umano se non se ne studiano le forze contrastanti, le antinomie strutturali: non sta dritta la corda sulla quale si vuole camminare se non la si tira con la stessa forza da tutte e due le parti. Per questa ragione, lo scrittore, come Dostoevskij, cerca “il rapporto dell’uomo con Dio, dell’uomo col diavolo”, fa emergere i germi della preghiera nelle parole di alcuni autori che magari cristiani non sono, o di personaggi letterari che appaiono moralmente eccepibili o blandamente dottrinali: l’Achmatova, di fronte al dolore/Calvario del figlio, non riesce a sfuggire alla tentazione di trasformarsi da Madre a Maddalena, sentendo troppo grande su di sé il peso della misericordia, l’ampio manto che sorregge la Madonna del Ghirlandaio in copertina. Gli scrittori — come Pomilio ne Il quinto evangelio — sono consapevoli che la parola, la loro parola, non satura da sola la propria possibilità veritativa: serve un quinto vangelo, uno spazio umano per sperimentare carnalmente la verità rivelata delle parole, una specie di misericordia divina ulteriore che faccia sentire e vedere che in sé “ripullula un gorgoglio / come di fango fatto preghiera” (Betocchi).
Avvicinandosi a questo libro con sincera apertura, ci si accorge che il nostro modo di leggere cerca di allinearsi al metodo del geometra (e Betocchi lo era!); è Caterini — da scrittore e critico e non da cronista della letteratura — che, come atto sacro, sacrifica e ci offre la sua esperienza di scrittura e di vita, ci porta con il suo ritmo sul sentiero già battuto dai grandi autori classici. Le ferite squarciate che ci ha fatto vedere sono le sue: il perdono, (rilievo che chiude il libro) è Caterini a implorarlo per sé, tramite la preghiera della sua letteratura.