LIPSIA — Un proverbio cinese afferma che quando il vento soffia, alcuni costruiscono muri, altri mulini a vento. Che nella politica e nella storia mondiale soffi un vento forte, per non dire esplicitamente di guerra, non vi è alcun dubbio. Per l’uomo abituato a riflettere, è impossibile non porsi la domanda sulla propria identità e sui criteri con cui vuole “discernere” ciò che legge, vede e sente.
Quando è ripresa con virulenza la battaglia per conquistare Aleppo, la Frankfurter Allgemeine Zeitung ha affrontato la notizia posizionandosi contro il regime di Assad e il suo “padrino” Vladimir Putin. Il giornale di Francoforte non ha ritenuto necessario accertare chi avesse distrutto due ospedali ad Aleppo. Chiaro sarebbe che il regime siriano, che contraddice ogni norma del diritto internazionale, e Putin hanno distrutto gli sforzi internazionali di risolvere il conflitto e se ne sono infischiati della tregua, che aveva permesso ad Aleppo di respirare per un momento.
In un libro di successo dell’ex corrispondente del settimanale di Amburgo Die Zeit Michael Lüders, Wer den Wind sät: Was westliche Politik im Orient anrichtet (“Chi semina vento. Cosa la politica occidentale provoca in Oriente”, Monaco di Baviera, 2015) si cerca di costruire un percorso in cui si vede in modo critico il ruolo dell’Occidente nella politica mondiale a partire dalla caduta del premier iraniano Mohammed Mossadegh nel 1953, causata dal governo britannico di allora che non non voleva una distribuzione più equa delle risorse energetiche iraniane a favore dello Stato iraniano, fino alla guerra in Gaza del 2014, passando attraverso la lotta contro Saddam Hussein, Mu’ammar Gheddafi e arrivando fino Bashar al-Assad. Con un enorme bagaglio di informazioni concrete l’autore fa vedere che è l’Occidente (Usa e Ue) che agiscono continuamente contro il diritto internazionale per difendere i propri interessi.
Accenno solo ad alcuni dei dati che il libro contiene in quantità: nei 50 giorni di guerra a Gaza nel luglio e agosto del 2014 sono morti 2.200 palestinesi, 500 bambini, 71 israeliani, di cui sei civili. L’autore propone anche cifre precise (per quanto possibile) sui i morti che sono costati gli interventi americani ed europei nelle guerre di “liberazione” in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria.
Lüders analizza l’assoluta incapacità da parte dell’Occidente di comprendere cosa sia in gioco nell’islam, nelle differenze confessionali tra sciiti e sunniti. Fa vedere cosa implicano le alleanze occidentali con il wabahismo (Arabia Saudita), la criminalizzazione di movimenti come i Fratelli musulmani, che avevano fatto un grande lavoro sociale e caritativo, ma una volta raggiunto il potere in Egitto non sono riusciti a proporsi in modo politico adeguato. La simpatia occidentale per un dittatore come il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, l’atteggiamento assolutamente acritico contro le tendenze etnocratiche religiose di Israele, sono altri fattori importanti di questa storia del coinvolgimento occidentale, statunitense ed europeo, nel vicino e medio oriente, analizzati nel libro del giornalista tedesco.
Gli errori di comprensione occidentale di ciò che accade nel medio e vicino oriente presentati da Lüders rivelano una colossale mancanza di “discernimento degli spiriti” in gioco. La sua critica è tanto più interessante per la sua attenzione ai fatti ed alle fonti che rivelano i fatti e che sono sempre ricercate con particolare attenzione; per esempio nella sua critica al ruolo di Israele nel conflitto medio orientale Lüders cita sempre fonti critiche israeliane e non solo arabe.
L’errore di fondo nella comprensione occidentale consiste in una forma sferica di pensiero: nel centro stiamo noi occidentali e intorno a noi gli altri, che sono sempre visti come un problema e non come un bene per noi. La complessità del palcoscenico politico mondiale non può essere ripensata e compresa con questo metodo sferico. Papa Francesco ha proposto nei suoi interventi “politici” (Strasburgo, Washington) un metodo poliedrico alternativo a quello sferico, che tenga conto di più realtà del potere mondiale. L’autore, che non cita mai il papa (come non cita mai Giovanni Paolo II parlando del conflitto in Iraq del 2004), propone una soluzione simile quando dice che bisogna tenere conto di tutti gli attori nel palcoscenico mondale: la Cina, la Russia (a differenza della Faz, Lüders dice che bisogna dialogare con Putin), gli stati Brics come il Brasile, la già citata Russia, l’India, il Sudafrica (e leggendo il libro mi è venuto spontaneo pensare all’idea degli “stati continenti” del filosofo latino americano Alberto Methol Ferré, amico del papa, come superamento del modello sferico di cui stiamo parlando).
La tesi del libro di Lüders è chiara. L’Occidente sta raccogliendo ciò che ha seminato: sotto il manto della democrazia e dei diritti dell’uomo si è nascosta e si nasconde la più brutale guerra di interessi economici; una guerra in cui, secondo l’autore, la Germania della Merkel sarebbe acriticamente a favore sia degli Usa che di Israele e così corresponsabile di un conflitto in cui a farla da padrone sono gli interessi economici e militari dell’Occidente contro il mondo musulmano.
Ovviamente l’autore sa che una critica ad Israele da parte della Germania è qualcosa che dev’essere fatto con molta cautela, vista la responsabilità tedesca nello sterminio di grande parte del popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale, ma ritiene che una chiara presa di posizione a proposto del genocidio ebraico nel passato possa essere unita ad una critica all’attuale stato di Israele sia per quanto riguarda la questione palestinese, sia per quanto riguarda quella iraniana.
Oltre alla Merkel, Lüders critica anche la candidata democratica alla presidenza in Usa Hillary Clinton, citata due volte nel libro, che giocherebbe, se eletta come presidente degli Stati Uniti, un ruolo di inasprimento dei conflitti. Detto in breve: Is e al Qaeda portano il marchio “made in Europe”, “made in Usa”.
La speranza dell’autore è nella coscienza politica della “Mittelschicht” (ceto medio), che fa fatica a crescere nei paesi arabi, in cui, a parte la Tunisia, sono sparite le speranze della primavera araba, in primo luogo per una debolezza del ceto medio stesso. Inoltre confida nel tribunale internazionale dell’Aia, in cui dovrebbero apparire come imputati Georg W. Bush, Dick Cheney, Tony Blair, Donald Rumsfeld, “se la comunità di valori occidentale vuole essere piena di vita” e non solo di parole.
A parte una volta in cui Lüders cita alcune chiese americane, le chiese in quanto tali non hanno nessuna rilevanza nel suo libro. In questo modo, però, viene da chiedersi se il superamento del modello sferico che è l’obiettivo di Lüders sia realmente possibile. L’autore dovrebbe confidare di più nella chiesa intesa in un senso ecumenico, quella che si vede negli incontri di Papa Francesco con i patriarchi Kirill e Bartolomeo o con il responsabile della chiesa evangelica luterana tedesca Heinrich Bedford-Strohm, tanto per citare qualcuno.
Dovrebbe forse prendere più sul serio, infine, quella legge ontologica inscritta nel dono stesso dell’essere, che non è donato in modo monolitico e sferico, ma poliedrico e molteplice; e che non si offre come idea dell’essere, ma nella forma di persone di cultura e provenienza diverse, e della varietà pressoché infinita del creato. Questa opzione di fondo incontra ciò che Lüders scrive nell’ultima pagina del suo libro, là dove dice che dobbiamo imparare a discernere ciò che accade nel palcoscenico del mondo con “umiltà e modestia”. Se pensiamo ai milioni di morti per le guerre che abbiamo voluto per gestire il potere nel mondo, se pensiamo che solo nel vicino e medio oriente milioni di uomini cercano di sopravvivere, non potremmo che pensare noi stessi e gli altri, come un grande noi di fratelli e sorelle, differenti, ma con un destino comune: costruire mulini a vento per usare la forza del vento e non muri, che non potranno che essere abbattuti.
PS. In questo sono completamente d’accordo con Paolo Malaguti che ha recentemente, nelle colonne di questo giornale, presentato una riflessione alternativa sia al cosmopolitismo astratto che al nazionalismo, vedendo nella stessa parola “confine” non un “muro”, ma un incontro tra identità diverse.