La stagione teatrale corrente offre un’opportunità rara, che è lecito supporre non riapparirà tanto presto: quella di vedere uno spettacolo teatrale di alta qualità la cui scena finale si potrebbe definire come oscena. L’etimologia del vocabolo latino originale, obscenus, è sconosciuta. Allora, per spiegare che, nel caso presente, faccio ricorso a questa terminologia in modo descrittivo, non negativo (e che comunque non sto parlando di pornografia), mi prendo una piccola libertà: evidenzio la parola scena che fa capolino là dentro. 



Si potrebbe dire infatti, e non sarebbe un gioco di parole gratuito (ammesso e non concesso che esistano giochi di parole “gratuiti”), che la scena teatrale è una o-scena; nel senso che tutta la storia del teatro (almeno fino a quando il teatro veniva ancora preso sul serio), è lì a mostrarci che esso ha sempre offerto una rivelazione inquietante, sull’orlo dello scandaloso. Ma procediamo con ordine (come si diceva nei romanzi d’una volta): sto parlando della nuova edizione teatrale del dramma di Pier Paolo Pasolini, Calderón (scritto tra il 1967 e il 1973), presentato in varie città italiane con il sostegno del Teatro di Roma e della Fondazione Teatro della Toscana, e con la regia di Federico Tiezzi. 



Dopo le ingiuste persecuzioni giudiziarie durante la vita, Pasolini sembra essere l’oggetto postumo di un risarcimento ideologico/sentimentale che rischia di ridurlo a un’icona edificante, una sorta di santino laico. Ma Pasolini è ben altro: egli è forse l’unico poeta della seconda metà del Novecento che meriti un appellativo così radicale (quasi… osceno) come quello di genio. Solo che, appunto, il genio è sempre scomodo e scandaloso, e se lo riduciamo a modello acriticamente perfetto facciamo un’ ingiustizia proprio alla sua genialità. 

Ma, ripeto, andiamo con ordine. Il Calderón di Pasolini è un brillante dramma che audacemente si misura con uno dei capolavori mondiali del teatro cosiddetto barocco (sarebbe ingiusto definire il testo pasoliniano come un rifacimento). Il capolavoro in questione è la tragicommedia in versi La vida es sueño (1635) del grande poeta drammatico spagnolo Pedro Calderón de la Barca, un testo la cui forza teatrale, attraverso i secoli, è ancora completamente contemporanea (ricordo una messa in scena sul prestigioso palcoscenico della Brooklyn Academy of Music a New York, dove, fra tanti altri intensi momenti, la scena della tentata violazione di Rosaura da parte di Segismundo, recitata dagli attori quasi strisciando per terra, faceva ancora sobbalzare noi spettatori). 



L’enorme intelligenza di Pasolini si rivela in tanti aspetti del suo Calderón (il nome dell’autore secentesco è divenuto il titolo del dramma novecentesco): il modo in cui Pasolini fa emergere in termini moderni, e mantenendone l’ambiguità, il sottotesto dell’Edipo Re già presente in Calderón; la risoluzione pasoliniana dell’intrico di trama e personaggi nell’originale con l’idea di successive “incarnazioni” o avatar di uno stesso personaggio, Rosaura; la forte attualizzazione della vertigine fra sogno e veglia, ecc. Il testo pasoliniano però s’incaglia, per così dire, su due elementi: il linguaggio e la strategia filosofica generale. Ma anche gli incagli, quando si tratta di uno scrittore geniale, sono importanti e istruttivi. 

Il linguaggio teatrale di Pasolini è, in generale, didatticamente razionalistico e alquanto legnoso; ciò manifesta in parte, probabilmente, un’influenza di Brecht: che viene in effetti citato in tono un po’ ironico, con un tentativo di esorcizzare l'”ansia dell’influenza”, insieme con tanti — forse troppi — nomi di altri scrittori e artisti (un nome che invece non è citato, fra tanti esotici, è il nome nostrano di Pirandello). Ma Brecht non è intellettualistico (laddove Pirandello spesso lo è); e accade poi che in Calderón c’è un contrasto stridente fra il tono generale para-brechtiano e la scena fra lo studente e Rosaura nella sua seconda incarnazione, come prostituta — scena in cui il linguaggio pare sia tornato al naturalismo del film pasoliniano Mamma Roma (1962). Il regista Tiezzi ha rispettato la “leggibilità” della scena con la prostituta, e per il resto ha portato gli attori (tutti molto bravi) a una stilizzazione sopra le righe, nel tentativo di ravvivare l’intellettualismo dei dialoghi. Si sia d’accordo o no con questa soluzione, va apprezzata la sua fondamentale onestà: il testo è stato rappresentato nella sua integralità, con l’introduzione di alcuni alleggerimenti coreografici (che ammiccano alle soluzioni sceniche di Robert Wilson, Pina Bausch, ecc.) per scongiurare la monotonia.

Ma l’incaglio più interessante è quello che merita la qualifica di filosofico: c’è un pensiero nel dramma di Pasolini, così come c’è un pensiero nei drammi di Calderón de la Barca. Che le due “filosofie” siano diverse, è prevedibile; ma è importante specificare come esse funzionino nei due drammi. Nel poeta del Siglo de Oro, la conturbante confusione tra sogno e realtà è risolta rimandandola a una Realtà soprannaturale — con una mossa tanto più efficace in quanto tale Realtà non è mai esplicitamente descritta. Ci si sarebbe potuti aspettare, allora, che lo sfondo teologico de La vida es sueño fosse sostituito in Calderón da uno sfondo ideologico marxista — e in effetti è questo che in parte Pasolini vorrebbe che una parte dello spettatore pensasse. 

Perché in realtà Pasolini aveva già compreso in tempi tutt’altro che “sospetti”, cioè all’altezza del Sessantotto, come i paroloni-feticcio che il portavoce dell’autore e i vari personaggi continuano a rimbalzarsi nel corso del dramma (Piccola Borghesia, Alta Borghesia, Potere, Fascismo, Capitalismo, Proletariato ecc.) si fossero già essenzialmente svuotati del senso a loro attribuito dalla tradizione marxista, e in effetti di ogni senso specifico: che insomma si era già entrati nel turbine di qualcosa di nuovo (ma non un nuovo classicamente “di sinistra”), per cui anche termini come “neocapitalismo” apparivano già come pateticamente inadeguati (proprio in quegli anni, nel 1971, la romanziera e filosofa inglese Iris Murdoch scriveva: “A quanto pare, stiamo entrando in un tempo a-teologico. Perfino la teologia marxista ha perduto il suo fascino”).

E tuttavia… in Calderón come in tanti altri casi Pasolini si muove con una manovra che un moralista potrebbe bollare (e sarebbe ingiusto) come “malafede”, un professore post-sartriano-marxista potrebbe chiamare (e sarebbe pedante) “falsa coscienza”, un politico potrebbe definire (e sarebbe rozzo) “doppio gioco”, e che insomma consiste in un sottile esercizio di doppia verità: insinuare una critica radicale di certe idee pur mantenendole vive alla superficie. Infatti, con il suo linguaggio ipercritico e antilirico (ma squarciato a tratti da un lirismo poetico), Pasolini suggerisce che le categorie con cui l’establishment marxista o marxisteggiante della sua epoca si propone di analizzare la realtà sono ormai obsolete — ma al tempo stesso egli non rinuncia ad agitare questi gagliardetti già impolverati per ottenere un’adesione sentimentale.  

Nulla di male in ciò (ho già preso le distanze dal moralismo), e in fondo quasi sempre la poesia è costretta a giocare su due tavoli contemporaneamente, per passare attraverso le maglie del conformismo ideologico che regna in ogni epoca. L’abilità dell’artista consiste peraltro nel non strafare; ovvero, è tutta una questione di stile (e come altrimenti potrebbe funzionare, la letteratura?). Per tutto il dramma Pasolini mantiene in effetti un efficace equilibrio su questo filo di rasoio. E’ solo nella scena finale che l’equilibrio crolla. L’ultimo sogno fatto da Rosaura — un sogno che la rende “felice” — è di trovarsi “in un lager, in un gelo tenebroso”. La lunga descrizione che segue lascia lo spettatore profondamente a disagio: c’è qualcosa di opportunistico, in questa evocazione concentrazionaria (in cui si sente, fra l’altro, che Pasolini sta già pensando alla sensualità moralisticamente mascherata — altra “doppia verità” — di Salò). 

Ma non è questa, l’oscenità di Calderón. Se il sipario fosse calato su questa descrizione, il dramma avrebbe fornito l’immagine coerente di quella disperazione della contemporaneità che è la parte che resta più attuale fra i tanti, e spesso contraddittori, messaggi lanciati da Pasolini. E invece no: l’autore non riesce a fermarsi, e si concede un lieto fine in stile di realismo socialista. A un certo punto “[…] entrano gli operai. Hanno bandiere rosse/ strette nei pugni, con le falci e i martelli:/ hanno i mitra imbracciati; hanno fazzoletti/ rossi annodati al collo, sui colletti anneriti/ delle tute” ecc. Questa oleografia era già oscena (vabbè, diciamo: lievemente oscena) alla fine degli anni Sessanta; figuriamoci oggi! Ma, ripeto, il regista ha preservato con onestà tutto il testo, lasciando la valutazione agli spettatori. Tanto più che (ambiguità geniale di Pasolini) queste non sono le battute conclusive del dramma; e vale la pena di citare gli ultimi quattro versi, in cui un personaggio si rivolge a Rosaura: “[…] di tutti i sogni che hai fatto o che farai/ si può dire che potrebbero essere anche realtà./ Ma, quanto a questo degli operai, non c’è dubbio;/ esso è un sogno, niente altro che un sogno”.

Due diverse interpretazioni sono possibili, e Pasolini sapeva e prevedeva che entrambe sarebbero state realizzate, nella mente degli spettatori. C’è l’interpretazione di superficie: — Ah, che bello se questo sogno si realizzasse! Ma la società ingiusta non lo permetterà mai (in questa interpretazione, il sogno è tale in senso accidentale). Ma c’è anche l’interpretazione profonda: — Questo è un sogno nel senso che l’immagine oleografica, la quale nasconde un intrico di violenza e oppressione, non esiste se non in un limbo ideologico, ed è venuto il momento di guardare alla realtà (in questa interpretazione il sogno è tale in senso, per così dire, ontologico: non può uscire dal suo ambito).

Ho assistito alla rappresentazione di Calderón nel teatro “Arena del Sole” di Bologna, dunque in un luogo in cui, per così dire, Pasolini “giocava in casa”; e, prevedibilmente, l’applauso finale è stato lungo. Eppure si sentiva in quell’applauso una vena di incertezza: molti degli spettatori (la cui intelligenza non dovrebbe mai essere sottovalutata) dovevano aver colto questo gioco della doppia verità… Allora torniamo al gran verso, solo apparentemente tautologico, di Pedro Calderón de la Barca: “Y los sueños, sueños son”.