(Secondo di due articoli). Ancora più emblematico del carattere fideistico dell’appartenenza al partito e della centralità del possesso della tessera, è il racconto-testimonianza della compagna Dina Guadagnini, segretaria dell’Udi di Bologna nell’immediato dopoguerra. Si tratta di un’esternazione drammatica e toccante che ben chiarisce quanto profondi e intimi fossero i legami tra i militanti e il partito, in cui il secondo, per i primi, equivaleva non ad una ma alla suprema ragione per cui valesse la pena vivere:
“Se permettete, di una cosa debbo parlare alle compagne. Colombi questa mattina ci ha detto che presto sarà distribuita la tessera effettiva del partito. Bisogna imparare ad apprezzare la tessera del partito. Ho potuto riscontrare che nelle nostre sedi si trovano portafogli con tessere del partito dentro, lasciate qua e là. Questo dimostra che non si dà importanza alla tessera. Ma, compagne, se pensiamo che la tessera del partito può capitare in mano ai nostri nemici, che la possono falsificare e poi entrare in mezzo a noi, è questa una grave colpa. Io ho esperienza dell’Unione Sovietica, in quanto ho avuto la fortuna di vivere qualche anno là e so che il partito comunista si soffermava molto a richiamare l’attenzione su questo; perché appartenere al partito comunista è l’onore più grande che possiamo avere. Quando il compagno Fausto mi consegnò la tessera del partito, mi sentii una certa cosa e dissi: sono io degna di portarla con me? Se domani io non fossi più degna di portare questa tessera, non potrei più vivere; perché non è il partito che ha bisogno di me ma sono io che ho bisogno del partito, in quanto ho traversato nella vita momenti molto duri, ma pure il partito mi ha dato la vita. Quando penso che il partito c’è un poco anche per me, questo mi dà forza a superare tutte le crisi. Sono stata in carcere, poco per fortuna, ma io non mi demoralizzavo mai perché pensavo che fuori c’era il partito che mi aspettava e che il mio posto era fuori. Quindi perdete piuttosto la fidanzata, la moglie, tutto quello che volete, ma non perdete la tessera del partito”.
Il partito, in quanto investito di un compito di immensa portata, è tutto per il militante: origine e fine della propria esistenza. Il culto dei dirigenti, la disciplina, la gerarchia, il conformismo, rappresentano la condizione affinché il partito possa assolvere al compito che gli è proprio di trasformare la realtà. Non c’è salvezza fuori dal partito proprio perché il compito che deve assolvere è di questa portata. Soprattutto non c’è società senza il partito. La società che il Pci si trova di fronte è infatti un coacervo indisciplinato di tendenze contraddittorie: lasciata a se stessa non può che confermare la continuità del dominio capitalistico e produrre anarchia e fascismo.
“Il partito è una cosa seria e sacra”, ricorda Roasio a Terracini nella seduta della direzione che discute il suo dissenso sulla costituzione del Cominform, e del “sentimento sacrale” che si aveva del partito in quegli anni parla anche Pietro Ingrao nei suoi ricordi di militante. Concetto Marchesi, nella seduta del Comitato centrale dedicata alla “questione Terracini”, prorompe in una perorazione non tacciabile semplicisticamente di retorica ma da leggere come espressione di un sentire profondo che esemplifica all’estremo questa concezione religiosa e sacrale del partito. Un partito al contempo padre, psicologo e dio:
“Affidiamoci al partito, compagno Terracini, affidiamo al partito queste povere persone nostre soggette ai dubbi e agli errori, perché esso ci dà un’esperienza che colma la nostra esperienza, esso accresce la nostra libertà perché ci libera dalla servitù dei dubbi, delle torbidezze, delle incertezze e degli errori. Affidiamoci al partito; non credo che tu abbia bisogno di studiare ancora per restare con noi, per restare degnamente con noi nell’alto posto che tu hai meritato e che noi vogliamo conservarti; non credo che tu abbia bisogno di studiare per farti un’anima operaia perché questo dobbiamo ottenerlo da noi stessi. Farci un’anima operaia significa amare questa grande Russia che ancora ci riempie di stupore e che dà tanta gioia e tanta certezza di vittoria. E per questo, compagno Terracini, tu non hai bisogno di sfogliare libri; chiedilo, questo, alla storia della tua vita”.
Come si vede, è nella stessa esperienza personale cui occorre attingere per ritrovare certezze. Si tratta di schemi ideologici consolidati, uniti alla persuasione di possedere con essi la chiave unica per comprendere la realtà, per governarla e indirizzarla sulla via di un profondo, positivo rinnovamento. Essi sorreggono ed insieme giustificano tale impianto emotivo e l’identificazione totalizzante con il partito che ne deriva. Vi è un esclusivismo comunista, un trionfalismo comunista, speculare a quello cattolico. I comunisti sono coloro che hanno un più esatto senso della realtà e delle necessità della vita nazionale.
Se il “battesimo” dava o confermava la “fede”, l’attivismo ne verificava l’intensità. Le circolari dei dirigenti provinciali invitavano alla massima cura nella scelta dei quadri chiamati a far parte dei direttivi. La prescrizione era perentoria: “La scelta deve cadere in compagni che abbiano già dato prova di attaccamento e fedeltà al partito e che sono in grado di assolvere alla loro funzione e di saper applicare la linea politica del partito”. Soprattutto le frange più radicali vedevano nel perfezionamento degli strumenti organizzativi la via migliore per mantenere in vita un partito sempre preparato al “combattimento”; un partito che fosse la versione adeguata ai tempi di guerra fredda di quella che era stata la forza armata della Resistenza in tempi di guerra calda.
Certamente anche per questo motivo il Pci si trovò sempre in prima linea nelle celebrazioni del 25 aprile, e più in generale dell’epopea resistenziale, spesso con l’intento di monopolizzarle: tali celebrazioni, infatti, equivalevano a una delle modalità attraverso cui tenere desta e sempre vigile la convinzione nei militanti, e con essa il conseguente spirito di sacrificio e di combattimento che ad essi si richiedeva.
Generare e rinnovare continuamente la fede — così come da due millenni farebbe il sacerdote con la massa dei credenti — è uno dei punti cardine della “religione comunista”. L’imitazione della Chiesa e del rapporto tra i fedeli e i sacerdoti, in questo caso, appare ancora più evidente. Un intervento di Togliatti in direzione (febbraio 1946) aiuta a meglio comprendere i termini della questione. Discutendo sull’inutilità di una campagna elettorale limitata ai soli comizi elettorali, il leader del Pci effettua un interessante parallelo con l’attività del parroco rilevando, non senza timore, che occorra prendere a modello proprio questa attività per rendere più efficace la penetrazione comunista fra le masse. I parroci, infatti, ovunque sono a contatto con le persone, conoscono i loro problemi e sanno ben comprendere e indirizzare: “bisogna arrivare più in là — afferma Togliatti — bisogna arrivare a conoscere le masse elettorali; bisogna che i compagni conoscano gli elettori delle sezioni ed in questo chi ci batterà veramente sarà la Democrazia cristiana in quanto il parroco li conosce uno per uno e da lui si rivolgono quelli della Democrazia cristiana per farsi un’idea di come la pensano politicamente”.
Se costante è il tentativo del Pci di imitare la struttura operativa della Chiesa, nonché la sua riconosciuta capacità di rafforzare e approfondire la convinzione dei propri aderenti, il risultato diviene spesso una rincorsa concitata di una realtà verso la quale ci si trovava costantemente in ritardo: pura utopia, infatti, si rilevava l’applicazione di un modello di funzionamento che traeva origine da sviluppi materiali e spirituali del tutto differenti da quelli della vita del partito.
Quale origine abbiano avuto, e quale abbiano ancora, questi sviluppi materiali e spirituali è forse il compito precipuo che si pone oggi dinanzi ai tutti i cattolici, così da riscoprire la sorgente inesauribile e originale del proprio essere e del proprio operare, senza cedere all’inganno delle buone e nostalgiche intenzioni che fa confondere la Presenza con la propaganda.