La pittura europea ebbe, tra la fine del XIX secolo e la seconda metà del XX, uno splendido sussulto di creatività. Pochi artisti possono vantare di avere realmente accompagnato tutte le peregrinazioni delle arti figurative come Henri Matisse. I suoi lavori, pur nella diversità di stili, tecniche, temi e prospettive, stanno alla pari di quelli di Picasso e Dalì. Senonché, come sosteneva Dalì, Picasso era socialista e perciò ricchissimo. Il baffuto funambolo intendeva un fatto specifico, ma lo testimoniava in modo troppo istrionico perché fosse capito: Picasso si allenava ad incarnare il pittore dell’ortodossia intellettuale marxista. E lo faceva con una libertà di posizioni che i suoi ammiratori non avevano: troppo occupati ad eleggere l’idolo che avrebbero portato in trionfo fino alla fine del secolo breve.
Paradossalmente, però, il prestigiatore Dalì, carrozzone barocco delle proprie contraddizioni e artista totale che intendeva con precisione portarsi a spasso il carico della propria irregolarità, riusciva più congeniale allo spirito dei tempi dagli anni Cinquanta in poi. Graffiante bon vivant del boom economico e memoria storica di avanguardie mai esistite.
Lo stile di vita di Matisse era assai meno spendibile nella seconda metà del Novecento: borghese conservatore, animatore degli anni parigini, certo non santo e demiurgo, ma uomo anche di notti e modelle, eppure distante anni luce da ogni retorica di dissipazione libertaria. La potente creatività di Matisse trovò spazio anche in quest’assoluta libertà espressiva. Lo dimostrano le considerazioni rimaste su pagina scritta: Matisse manovrava in modo geniale anche la penna. Non si ingaglioffiva nel compiacimento e non pretendeva di trasformare il taccuino e il diario in appendici della manualistica d’accademia.
C’è un filo sottile eppure percepibile quasi sensorialmente a tenere uniti il giovane studioso di pittura, il leader mai proclamatosi del fauvismo, il pittore maturo che dialogava con le arti orientali e preconizzava squarci d’astrattismo, il vecchio malato che andava a scuola da Dio e cercava nel bello in primo luogo la fenomenologia dell’illuminazione. Il riconoscimento della gioia nella bellezza. Non la gioia ilare e beona (o beota), non l’elogio dei mattacchioni e nemmeno sproloqui sulla sinestesia e sul sincretismo. La gioia come elemento fondativo della pittura, che si lascia vedere e presagire fin dentro al pozzo delle difficoltà più angoscianti.
Percorriamo questo tesoro cercando di vederne tutte le tappe. Il lavoro sul colore, denso e intenso eppure anche leggiadro, che riscalda il cuore ne “La Gioia di Vivere” è una folgorazione vera e propria che non teme il confronto con l’introspezione ruvida del Picasso dei nudi avignonesi. E’ il 1906, ma è un lavoro che potrebbe essere dipinto oggi e risultare parimenti spiazzante. Appena tre, quattro anni dopo ed ecco le due versioni della Danza e quella ritmica di corpi che si congiungono nell’abbraccio in movimento: una gioia della partecipazione, della fisicità e della comunicazione che pure l’italiano Andrea Camilleri ha talvolta preso a modello nelle sue regie teatrali.
Il gusto del tratto erculeo e deformante nella senilità degli anni Trenta e nel Nudo del 1935. E poi le illustrazioni per “Jazz”, ben altra cosa rispetto al primitivismo della scoperta lirica e ritmica che raccontava il ben più risalente “Musica” del 1910.
Matisse ha percorso le decadi guidato da due venti: la coerenza della propria ricerca e il guizzo della propria entusiasmante creatività. Individuo e intersoggettività come i due versi a partire dai quali leggere il medesimo diario: questo ci racconta la giocosa e impostata insieme “Camicetta Rumena”, nello spalanco cattivo degli Anni Quaranta. E quel principio dinamico sempre presente, che tutto muove, partecipandone la bellezza: Matisse, quasi fosse un novello cristiano invitato ad avere “spes contra spem”, lo vedeva con chiarezza dalla sua coloratissima “Finestra aperta” già nel 1905.