Osservare i fatti, mantenere in ogni momento un’attenzione a ciò che accade, senza distrazioni ed evasioni, è per Giuseppe Di Fazio anzitutto un istinto, fa parte del suo dna. Ed è anche un principio deontologico, fatto valere in una trincea, ormai trentennale, di giornalismo vigile, alieno da pigrizie, luoghi comuni, schermi ideologici. Più di ogni altro operatore culturale, il giornalista dovrebbe avvertire la pressione e la sfida dell’aforisma di Alexis Carrel: “Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità”. Se ha potuto dirlo uno scienziato (Carrel fu, giovanissimo, premio Nobel per la medicina), sarebbe tenuto a ripeterlo, con convinzione non minore, un redattore capo o un inviato speciale. Da parte sua, Di Fazio ne è sempre stato convinto; e lo ribadisce in un volume magro e vivace, maturato nel solco della sua più recente esperienza giornalistica, La notizia diventa storia, che appare in questi giorni per i tipi di Domenico Sanfilippo Editore. 



Una rassegna ora puntata verso il dettaglio locale, ora attenta a scenari su vasta scala: il compasso può restringersi alla cronaca nera di un paese siciliano e allargarsi al terrorismo nel cuore dell’Europa, alle tragedie dell’area mediorientale. Ma la preoccupazione è la stessa. E il bivio tra osservazione e mistificazione ripresenta, ogni volta, il nuovo da una parte, lo stereotipo dall’altra: i fatti possono divenire mera conferma di ciò che sapevamo già, ma il loro valore sta nell’originaria provocazione, in grado di spiazzare pregiudizi di lungo corso, se non bloccata e anestetizzata. 



Alla maturazione di queste pagine ha giovato anche la sollecitazione di un altro fronte, l’insegnamento di storia e tecnica del giornalismo, tenuto da Di Fazio nell’Università di Catania. L’intersezione tra due mestieri ha stimolato questioni non banali: rimane un abisso insanabile tra l’umiltà della cronaca e il blasone della storiografia? La mossa che registra a caldo i faits divers è così inassimilabile al rigore delle grandi e meditate ricostruzioni scientifiche? 

Si sa che, in sede storiografica, il culto positivistico degli avvenimenti è stato messo in crisi dalla scuola delle Annales, attenta alla lunga durata; una misura a disposizione dello storico ed evidentemente irraggiungibile dalle leve del giornalista. Ma già intorno agli anni 80, la fobia per l’evenemenziale ha trovato un salutare correttivo nella “storia immediata”, grazie a una nuova generazione di ricercatori. Le coordinate del loro approccio? Prossimità temporale dell’indagine all’argomento in esame e materiale vicinanza dell’autore alle vicende da vagliare. E Di Fazio ha buon gioco nell’appellarsi a Jean Lacouture, il capofila, in veste di teorico e di analista, di questo nuovo modo di fare storia (con illustri precedenti, peraltro, da Tucidide a Trotzki).



Si direbbe che storia immediata e giornalismo si incontrino giungendo allo stesso punto da strisce di partenza opposte: nel primo caso, si tratta di riguadagnare l’avvenimento, nel secondo di restituirgli uno sfondo. Afferrare il valore specifico del fatto, il suo dinamismo proprio, è responsabilità ineludibile; lo è altrettanto agganciare il fatto a una cornice. Così lo storico immediatista e il reporter possono in certa misura convergere; entrambi simili al cercatore di piste indiano, che non ignora la sarabanda fragorosa del rodeo, ma poggia l’orecchio al suolo per sorprendere echi profondi.

C’è da chiedersi se l’avvento di internet non abbia un forte peso su questa esigenza del giornalismo di riqualificarsi: in definitiva, la carta stampata, inevitabilmente in ritardo rispetto alla tempestività e fungibilità della rete, può rivendicare i propri quarti di nobiltà riscoprendo una parentela con la professione storiografica. Quando Di Fazio osserva che “non basta arrivare per primi per far buona informazione”, quando sottolinea che “occorre scavare nella profondità della notizia, contestualizzarla, scoprire i nessi con altri eventi”, si muove in questa direzione. Per i quotidiani incalzati da youtube, l’obiettivo non è l’immediatismo ma, esattamente al contrario, la fruizione di un certo margine di mediazione o, se si preferisce, di distanza critica. Di Fazio non sottoscriverebbe certo la massima idealistica secondo cui il fatto è un sacco vuoto, ma rimane assolutamente persuaso che, senza inchiesta sul significato latente, la mera registrazione dell’accadere è insulsa, quando non volgare. E si può scommettere che, ai suoi occhi, certi eccessi internettiani appaiano viziati da una sorta di banale positivismo di massa, con il video al posto della foto in bianco e nero, e la radicata illusione che riprendere il reale sia già, sostanzialmente, possederlo. 

Ma il problema non è lo strumento, che in sé e per sé rimane neutro, e include sia rischi che possibilità; decisivo è invece l’operatore, il soggetto che orienta in un modo o nell’altro l’attrezzatura a disposizione. Uno dei capitoli più incisivi di questo libro è dedicato al dramma di Loris, il bambino che a Santa Croce Camerina è stato ucciso e gettato in un canalone. Di Fazio testimonia il disagio di una comunità locale, letteralmente invasa da telecamere e microfoni. Il dolore, in quell’angolo di Sicilia, è stato lungamente svilito, ridotto a pretesto per un reality show. Colpa dei media? O piuttosto di una intera società, segnata da curiosità morbosa ma incapace di andare al di là della superficie? Ciò che troppo spesso viene eluso, in casi come questo, è l’interrogativo su cosa veramente sia accaduto, sul perché di una morte prematura e atroce. 

Ma lo si può rilanciare, questo interrogativo, sui giornali come sulla rete; e allora la notizia, quale che sia il supporto, comincia a uscire dalla sua opacità, pur senza approdare a una trasparenza totale. Il senso interamente dispiegato è traguardo che rimane fuori portata, l’inseguimento del senso conferisce dignità sia al blogger che all’opinionista di prestigio. In uno dei suoi appelli militanti, Pietro Barcellona, filosofo inquieto ed editorialista senza risparmio, esortava a “vedere la cronaca quotidiana dei fatti come progressivo emergere dei segni dei tempi, che costituiscono il tessuto della storia e dei suoi processi”. Di Fazio è su questa falsariga, si occupi di Sicilia o di controversie internazionali; la battaglia dell’informazione vuol vincerla in questo modo, con un’intelligenza dei fatti, sempre incompleta, “sempre aperta a ulteriori approfondimenti”.