C’è qualcosa di ardito nell’impresa compiuta da Roberto Regoli nel suo Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI (p. 512, Lindau 2016). L’ardimento non sta tanto nel voler raccontare il pontificato di Joseph Ratzinger, quanto nel volerlo fare da storico. Ora, è evidente a tutti che i fenomeni storici possano essere raccontati secondo lo statuto epistemologico proprio della loro disciplina solo dopo la conclusione ed è pure evidente a tutti che “de facto” l’esercizio attivo del ministero petrino di Benedetto XVI sia effettivamente concluso, però — e qui sta il busillis — è altrettanto chiaro, soprattutto nella coscienza del popolo cristiano, che un pontificato termina davvero con la morte del Romano Pontefice cui seguono i novendiali e le preghiere di tutta la Chiesa allo Spirito Santo “pro eligendo pontefice”. Noi, con Benedetto, non abbiamo vissuto niente di tutto questo, al punto che — paradossalmente — siamo ancora all’interno del pontificato di Benedetto XVI, ma non più nell’esercizio attivo del ministero che esso comporta.
Si tratta di una situazione canonica e teologica estremamente complessa che non sfugge a Regoli e che i recenti festeggiamenti per i 65 anni di sacerdozio di Joseph Ratzinger hanno riproposto in modo difficilmente eludibile. La terminologia tecnica che descrive tutto questo è molto articolata e, solo per poterla approfondire, varrebbe la pena leggere il libro di Regoli.
Ma la questione è più ampia. Tra la misteriosa e paradossale conclusione del ministero petrino di Benedetto e il suo inizio Regoli individua ben sei punti di riflessione che già adesso si pongono all’attenzione dello storico non come semplici connotazioni del pontificato, bensì come sei linee di riforma tutt’altro che archiviabili. Per usare un’espressione cara a chi oggi esercita l’esercizio attivo del ministero petrino — e ben a ragione deve essere chiamato Papa a tutti gli effetti —, Joseph Ratzinger ha avviato sei processi che sono come l’ultima eredità di una stagione della Chiesa, iniziata con Paolo VI, consegnata ad un’altra stagione che il “pontificato argentino” ha felicemente avviato.
La prima linea di riforma riguarda la Curia romana. Con Benedetto molto è cambiato e molto si è purificato rispetto agli anni impetuosi ed energici del “governo polacco”. Benedetto ha tracciato molte traiettorie di discussione che, tuttavia, hanno trovato nell’enigmatica personalità del cardinal Bertone resistenze e reticenze. Eppure fu Benedetto a chiamare Bertone a “Palazzo” nel 2006, ma ciò non è mai stato sufficiente per il popolo cristiano a individuare tra i due quell’affinità ideale che un pontificato teologico e riformatore avrebbe dovuto far presagire.
In questo senso è sicuramente più luminosa la linea magisteriale, seconda delle sei direttrici riformatrici proposte da Regoli, intrapresa in solitaria dal pontefice bavarese. Dalla liturgia alla dogmatica, dalla vita religiosa all’enciclica sociale, Benedetto si è mosso nell’ottica di una riconciliazione col passato che aprisse la teologia della Chiesa ad una riflessione meno guascona e superficiale sul suo futuro.



Lo stesso contestatissimo motu proprio Summorum Pontificum sulla liturgia restituisce dignità a ciò che una certa furia iconoclasta post-conciliare sembrava voler abolire, ossia la Tradizione liturgica della Chiesa di Pio V opportunamente integrata nella pluralità rituale promossa dal Concilio Vaticano II di Giovanni XXIII e di Paolo VI.
Se ciò non bastasse, la terza linea di riforma racconta di un profondo rinnovamento della disciplina ecclesiale soprattutto in seguito all’esplodere dello scandalo degli abusi sessuali in seno al clero e alla Chiesa. Benedetto cerca di restituire rigore alla vita ecclesiastica e lo fa in modo tale da attirare — quarta direttrice di riforma — ampie frange del cristianesimo eterodosso nel seno di Santa Romana Chiesa. Non saranno tanto i seguaci di mons. Lefebvre a restare quali icone di questo papato ecumenico, quanto un nucleo significativo dell’anglicanesimo che — sotto il pontificato del Papa teologo — rientra nel recinto di Pietro.
Immediate conseguenze di queste “svolte” si registrano nelle prese di posizione del mondo laico e non cristiano, quinta direttrice del libro di Regoli: Benedetto suscita stupore e paura nel mondo profano, voglia di dialogo e violente reazioni mediatiche alla mite Verità che egli, di giorno in giorno, va coltivando. E gli esiti di quest’aria contraddittoria attorno alla Chiesa benedettina si vedono nel difficile cammino diplomatico che Regoli descrive quale ultima, ma non meno importante, direttrice di riforma di Papa Ratzinger. Un Papa eurocentrico, in serrato confronto con l’Occidente, con la sua crisi antropologica e sociale nonché con la minaccia del fondamentalismo islamico che si fa sempre più forte e che lui affronta alla radice col magistrale discorso di Ratisbona. È in questo contesto che nasce così l’espressione “valori non negoziabili” per indicare che in ogni assetto di potere c’è una Verità cui non si può venire meno.
E alla fine il binomio in cui ci trascina Regoli è proprio questo: da un lato il Papa della Verità e della libertà, dall’altro il mondo del Potere e dell’ideologia borghese, quella cultura relativista “dello scarto” che tanto impegnerà il suo successore argentino. In mezzo l’uomo Ratzinger che fa della fede la sua fisionomia più autentica e, attraverso la fede, si muove e sorprende tutti.
Il percorso di Regoli ci restituisce la storia di questi otto anni di Pontificato come un romanzo la cui ultima pagina deve certamente ancora essere scritta. Ed è tra le pieghe di quella voce ferma che chiama il mondo alla transustanziazione di se stesso nel giorno del suo sessantacinquesimo anniversario di ordinazione sacerdotale che quella pagina va cercata. Perché è nella fede di Ratzinger, ci dice Regoli, che gli storici devono cercare le risposte ai tanti perché di questa meravigliosa storia. È nella fede di ciascuno di noi che tutto diventa trasparente della nostra apertura di cuore, del nostro desiderio di cercare l’Amato del nostro cuore di giorno e di notte. Senza permettere all’aridità inevitabile o all’illusoria bonaccia di distrarre il nostro cammino.

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