Ad attraversare Il servo rosso di Paolo Valesio, una antologia di poesie scritte tra il 1979 e il 2002, è un processo di continua scomposizione e ricomposizione di coscienza e scrittura, una fusione di parola e trascendenza che, di queste poesie, è forma e sostanza. In questo processo/fusione viene a tracciarsi una mappa in cui Valesio, portando corpo potenzialità e infinitezza della parola all’estremo, restituisce alle parole il loro senso primario e alle cose nome e valore primario. Ne consegue, così, che l’essenza della poesia di Valesio, del suo rapporto con la parola e la trascendenza può essere vista in questo: in una restituzione di senso e valore primario, e in una crescita e gemmazione continua. 



Pensiamo ai dardi, a quei dardi che costituiscono la parte centrale della raccolta Il servo rosso. Valesio è innanzitutto entrato nella parola “dardo”, nella sua essenza, e ce ne ha offerto, restituito, il senso. “Dardo”, precisa Paolo Valesio in una nota, allude al latino iaculum che è all’origine della parola giaculatoria. Dardo, quindi, è freccia e giaculatoria. Ossia: tutta la tensione di una freccia che viene lanciata per colpire qualcosa/qualcuno (Dio/la trascendenza?) o per raggiungere, provare a raggiungere, l’infinito (ancora, e non potrebbe essere diversamente, la trascendenza/l’Assoluto). E poi un’altra tensione. Quella della giaculatoria, della preghiera, che ci fa tendere verso il nostro centro, la nostra essenza etico-religiosa, e che al contempo ci lancia verso soglie, a volte anche non nominabili, che vorremmo oltrepassare.



Ma i dardi sono anche gemmazione continua. Un nascere crescere e scindersi per ampliare se stessi nel rapporto con la trascendenza, e per cercare indagare, braccare per quanto possibile, l’Assoluto. Un Assoluto che, per carichi semantici e cambi di inquadratura, non è mai uguale a se stesso e con cui si interagisce non in un’unica modalità, ma in una pluralità di sentire.

Restituzione e gemmazione, quindi. Che aprono nella poesia di Valesio ad una parola che sa farsi interamente radice, che sa figurare e trasfigurare. Essere al contempo corporea sensoria e metafisica, una parola, tattile e duttile, che, come provvido e fertile movimento nell’esserci, sa partire da ciò che è puramente (miracolosamente?) umano per disporsi in nuove pronunce e tendere, accelerando verso se stessa, all’incontro con l’Oltre.



Stamattina ha cavato fuori l’anima” — così leggiamo nella poesia Il servo rosso che dà il titolo all’intera raccolta, “Ha affondato pian piano la mano/ dentro la gola per alcuni minuti […] e ha posato il minuscolo uomo/ rosso come lacca/ (era unto di sangue) sul tavolo […] Al momento di riporlo, / le mani hanno un poco tremato:/ se non avesse più trovato posto?“. C’è in quel cavare fuori l’anima un atto deciso e risoluto, una lucidità potente e nuda che osa e, osando, fa uscire l’anima dalla sua sede e la materializza, la forgia in qualcosa, è vero di minuscolo, ma che ci è noto nei suoi tratti, nella sua natura e sofferenza. 

Succede, per un attimo, che si crei un tempo e uno spazio, Valesio ce lo crea, in cui entrambi i poli, l’invisibile/soprannaturale e il visibile, ci sono (combacianti?) qui di fronte. Ma il trascendente (l’anima) e l’essere umano, per il loro, diciamo così, diverso codice genetico, non possono reggersi insieme a lungo, ed è inevitabile, dopo aver sperimentato, testimoniato, il trascendente nella sua densità e contraddizione, la domanda finale, quella doppia inquietudine, perché emotiva e razionale, del dubbio.

La poesia Il servo rosso, per questa co-esistenza di trascendente-uomo-dubbio, per questo suo essere peso specifico della condizione umana e della tensione di Valesio, ha tutte le caratteristiche per essere il sigillo dell’intera raccolta. E se questa poesia ne è il sigillo, il verso “Fatti disindividuo” e il Dardo 92 “Il cuor del mondo/ si estroflette e diventa un girasole” ne sono espressione e misura. 

Una espressione/misura che è trasfigurazione e sporgenza dell’anima. Che è l’Assoluto a cui si tende e la forza centripeta e centrifuga del dire e della parola di Valesio. Meglio: quel restare sull’abisso del filo io-trascendenza che ci marchia necessariamente e irrimediabilmente e che, conferendoci profondità umana, è al contempo la nostra luce ad intermittenza, e (forse) il nostro vincolo, e la nostra soglia, di libertà.


Paolo Valesio, “Il Servo rosso”, puntoacapo, Pasturana (Alessandria), 2016, pp. 330