I barconi malconci rigurgitano il loro straripante carico umano. Per molti, non c’è più speranza. Le gelide acque del mare li divorano come tomba sigillata forse per sempre. Tanti invece sopravvivono alla traversata senza ritorno. Poi li vediamo sbarcare traballanti sui moli dei nostri estremi confini. Qualcuno trova aperto un varco e scivola via, alla ricerca di appigli per non precipitare nel baratro. La fuga verso il mitico nord del benessere sognato a volte riesce. Altre volte si resta incagliati nei bassifondi più squallidi delle nostre periferie.
Alla lunga, il risultato è quello del rimescolamento crescente. Siamo entrati nell’era del meticciato pluriculturale, e ne sperimentiamo ogni giorno gli effetti anche solo muovendoci per le strade, entrando in un moderno santuario consacrato agli idoli del libero commercio. Le scuole dei nostri figli e nipoti si sono riempite di volti di mille colori. I mezzi di trasporto sono arche che traghettano uomini e donne divisi da esotiche barriere di linguaggi indecifrabili. Può capitare persino di incrociare qualcuno dei più sfortunati fra questi stranieri venuti da molto lontano abbandonato come scarto ai bordi di una piazza in pieno centro, con le quattro borse di plastica del suo precario patrimonio personale, preda del cupo lamento di chi vede profilarsi l’agonia di un consummatum est senza spiragli di uscita, senza neppure una faccia amica, o un Dio veramente vicino a cui affidarsi.
Tragedie microscopiche, consumate a tu per tu, e drammi epocali che si impadroniscono della pubblica scena sono le due facce di un’unica medaglia. Non c’è il minimo dubbio che la società in cui viviamo stia cambiando nelle sue strutture portanti. L’intensificazione dei flussi migratori e la mobilità coatta di cui sono il segno parossistico stanno portando alla piena evidenza il destino che incombe sul progresso moderno: le zone ricche in cui si si concentra l’accumulo dei profitti agiscono come una calamita che attira verso di sé le realtà umane più fragili, povere di risorse e dilaniate da conflitti interni destabilizzanti. Ma le correnti a senso unico degli esodi contemporanei non fanno che spingere alle estreme conseguenze una realtà di fondo che in passato, in condizioni di più pesante staticità, tendevamo a sottovalutare: la civiltà dell’Occidente non è una fortezza recintata, che si è costruita sul tronco di una autonomia chiusa a difesa del suo primato invincibile, retaggio di una superiorità che viene dalla notte remota dei tempi.
Semmai, si può immaginarla come un’oasi innestata in un grande arcipelago di isole fertili, con le quali non è esistito solo un rapporto di dominio espansivo, ma un intreccio fittissimo di scambi, di movimenti, di contagi, di condivisione continua di uomini, di idee, di beni economici, di pratiche sociali, di prodotti della cultura e della vita dello spirito. In particolare, la storia antica così come quella più recente del nostro giardino italiano non può più essere vista separata dal contesto mediterraneo di cui l’Italia è sempre stato uno dei crocevia più elasticamente aperti alla sintesi del molteplice che fa avanzare verso il nuovo.



Questo punto di vista era già quello a cui si ispirava l’intelligente saggio di Rémi Brague, Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa. Ripercorrerne le tracce può essere un modo molto semplice per accogliere tutta la provocazione intellettuale rappresentata dalle sfide che premono sulla coscienza che noi abbiamo di noi stessi e del mondo di cui siamo parte. Per tanto tempo ci hanno insegnato che ogni identità culturale ha una sua genealogia, in forza della quale il presente si costituisce come l’esito di una tradizione. Entrare da protagonisti nell’arena di una civiltà collettiva implica la conoscenza delle sue radici, dei suoi fondamenti “classici”, dei suoi pilastri storici più stabili e più geneticamente fecondi.
Benissimo, queste sono tappe imprescindibili. Però ormai sta diventando sempre più chiaro che, se vogliamo capire davvero chi siamo, e il posto che ci siamo ritagliati nello spazio che ci ospita, non possiamo più accontentarci di un’autarchia isolazionista. Continueremo a leggere — di sicuro non fa male — La Santa Romana Repubblica di Falco, Medioevo cristiano di Morghen, i saggi di Dawson, la Commedia, Shakespeare e i romanzi dell’Ottocento; se ne abbiamo le forze, non potremo fare a meno di misurarci con san Tommaso, Descartes, Leibniz, con la cosmologia e la fisica moderna, fino ad arrivare a Hegel e alle scienze sociali del sapere accademico post-humboldtiano. Tutto questo bagaglio stupendo che abbiamo ereditato è una risorsa che ha generato un enorme sviluppo, e ancora può alimentare una fioritura capace di estendere i suoi benefici alle parti del mondo che ne sono rimaste fin qui escluse.
Ma la nostra ricchezza non è un unicum che possiamo solo spartire distribuendolo a pioggia dall’alto come si diffondono le merci (con la democrazia e lo Stato moderno si sono visti i pasticci tremendi che la cosa comporta). Ciò che noi siamo è un addensamento di forze all’interno di un reticolo fondato, strutturalmente, sull’interscambio. Oggi questo sfondo di interdipendenza obbligata è solo diventato più visibile: ma le sue premesse accompagnano tutti i momenti dei processi di sviluppo che hanno portato all’approdo attuale.
Per questo occorre cimentarsi in modo creativo, senza restare prigionieri degli schemi del passato, nel tentativo di ripensare le piste di approccio, gli strumenti e la griglia irrinunciabile di una coscienza culturale capace di diventare meno autocentrata (meno imperialista e fagocitatrice, dunque anche meno euro- e soprattutto meno italo-centrica), decisamente più “ecumenica” e polivalente, più aperta alle avventure entusiasmanti dell’incontro, alla capacità di assimilare il diverso da sé, di fare spazio alle ragioni di chi viene da altre tradizioni e dà un altro significato ai mattoni della realtà che ci abbraccia costringendoci a convivere.
Applicato ai territori del sapere umanistico, non penso assolutamente che questo compito di riassetto degli equilibri del sistema delle conoscenze debba spingere nelle secche della storia “globalizzata” delle civiltà planetarie.



La presunzione di poterle rinchiudere in un unico cerchio, riducendole ai loro minimi lineamenti scheletrici, cioè appiattendo le differenze e annullando il senso delle diverse identità chiamate a dialogare fra loro, è una scelta di suicidio culturale che si è fatta strada negli ultimi decenni in larghi settori della cultura euro-americana più in linea con il business del politicamente corretto. Il rifiuto della propria tradizione non apre all’incontro autentico: uccide la soggettività e tritura la pluralità in un indistinto culturale che è il mercato globale dell’omologazione elevato al livello del mondo dei simboli e delle idee.
Alla proposta della storia delle civiltà umane “globalizzate” (ne discuteva Agostino Giovagnoli in un volume che rimane un sussidio prezioso: Storia e globalizzazione, Laterza, 2003), è certamente da preferire l’ipotesi dei “mondi connessi” teorizzata dallo storico di origine indiana, ma a sua volta trapiantato in Occidente, Sanjay Subrahmanyam (Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo. Secoli XVI-XVIII, Carocci, 2014). Qui si oltrepassa decisamente la retorica della globalizzazione unificatrice, che riassorbe ogni particolarità nel mosaico informe della storia dell’umanità concepita come un blocco solidale. Guardando alla storia del mondo moderno da un punto di vista “esterno” all’Europa, diventa più chiaro che si possono fissare le linee dello sviluppo delle culture solo seguendo gli intrecci che le hanno legate realmente, nel corso materiale dell’evoluzione storica. Non si può fare storia del “tutto”, in modo generico. Si può fare la storia dei nessi concreti che hanno messo in rapporto gli uomini sul filo del tempo, mettendoli in relazione e portandoli a riplasmarsi a vicenda. La nostra identità è il sedimento storico di una costruzione che ha interagito con apporti eterogenei venuti a integrarsi in un cantiere eclettico. Gli altri, non sono mai soltanto dei barbari invasori.
Assumendo la logica delle “connessioni” come filtro oggettivo per comprendere i nodi del tessuto di sostegno della tradizione in cui ci si inscrive, diventa possibile guardare in modo nuovo, più moderno, alla storia della stessa tradizione di civiltà cristiana dell’Occidente europeo. Diventa più facile vederla interconnessa con tutti i fattori che l’hanno influenzata, anche conflittualmente, dialetticamente, a partire dalle epoche più lontane fino a oggi. Insieme ai teorici dell’Europa intesa come cristianità, risulterebbe più naturale includere, tanto per fare qualche esempio, gli studi del grande orientalista tedesco Shelomo Dov Goitein sulla diaspora ebraica nel mondo arabo orientale, in corrispondenza con i secoli del nostro Medioevo (A Mediterranean Society, anche in un volume di sintesi tradotto in lingua italiana: Bompiani 2002).
Troverebbe da qui nuovo impulso l’interesse per il contributo fornito dalle culture precristiane dell’età antica, così come per tutte le civiltà dei monoteismi cresciuti ai bordi del mare nostrum che ci ha fornito linfa vitale. Si potrebbe guardare alla storia della conquista del Nuovo Mondo non solo seguendo le vie della colonizzazione europea, ma anche quelle delle ramificate presenze ebraiche, arabe e turche nell’intero spazio atlantico, in contemporanea con le imprese dei navigatori finanziati dalle corone cristiane. Diventerebbe possibile comprendere meglio il fascio dei contatti stabiliti con l’Oriente ortodosso, con il mondo islamizzato, con il suo retroterra asiatico e il gigante africano.



Riemergerebbe il senso della complessità e si tornerebbe a considerare la storia dello sviluppo europeo non solo dal punto di vista dell’Atlantico, dal nord, ma anche dal fuoco centrale del “mare interno”, luogo di incontro, di fusione di destini, di incessante amalgama religioso e culturale. Forse come avvio basterebbe rileggere con un minimo di apertura disponibile le pagine del grandioso affresco che, all’indomani del tragico secondo conflitto mondiale tra le potenze del continente, Braudel osò dedicare all’universo, brulicante di vita, del Mediterraneo nell’età di Filippo II.