L’11 settembre 2001 stavo preparando la tesi di laurea. Un mio amico mi ha mandato un sms, dicendomi di accendere la televisione, e, come per fortuna non mi è più capitato di vedere, per quanto cambiassi canale le immagini erano sempre le stesse. Ovviamente passai il pomeriggio davanti allo schermo, ovviamente anch’io inorridii al crollo della prima torre, però ricordo chiaramente la mia consapevolezza di fronte all’incomprensione di fondo. In altre parole, l’analisi del presente nel suo farsi è a mio avviso appena meno rischiosa della congettura sul futuro. Solo nel momento in cui il fatto diventa storia si presta ad essere studiato e compreso a fondo nelle sue cause e, soprattutto, nei suoi effetti. E così, in barba alla legge dello share televisivo, che impone di sfruttare la notizia finché è “calda”, prediligo i commenti postumi, a bocce ferme, quando, bene o male, i pezzi del puzzle si sono composti, o hanno almeno tracciato un contorno abbastanza nitido.
Dopo un’ora dalla notizia del golpe militare in Turchia erano in molti (me incluso) a dare Erdogan per spacciato. Le voci che lo davano in fuga aerea verso qualche paese ospitale confermavano questa percezione, le dichiarazioni dei militari ai media, i comunicati rilasciati in perfetto anticipo alle ambasciate straniere in Turchia parevano non dare adito a dubbi. E in fin dei conti non solo noi comuni mortali eravamo di tale avviso: a leggere con calma le dichiarazioni rilasciate dalle cancellerie occidentali a ridosso della notizia, appare eclatante non dirò il disinteresse, ma perlomeno la tiepida equidistanza nei confronti delle parti in causa. Se non erro nessuna delle prime dichiarazioni a caldo della politica europea ha esplicitamente chiamato in causa il presidente turco esprimendogli solidarietà, in una sorta di funerale politico del non detto.
Ma non fermiamoci qui: l’idea di avere un regime militare e antidemocratico a due passi da casa, in un paese grande come la Turchia, membro Nato, coinvolto a doppio filo con la politica europea, dall’emergenza migranti alla gestione della crisi siriana, a rigor di logica dovrebbe far venire i sudori freddi. Ma, anche in questo caso, credo che nella mente di molti occidentali inchiodati allo schermo della televisione il sospetto della fine di Erdogan sia diventato poco alla volta un auspicio. E di conseguenza vedere il volto del presidente dallo schermo di uno smartphone, sapere della popolazione che si riversa per le strade, osservare le scene forse un po’ coreografiche dei civili che si sdraiano davanti ai blindati dell’esercito, tutto ciò ha in qualche modo lasciato un senso di amaro in bocca.



Forse non si trattava di dispiacere vero e proprio, quanto piuttosto di rammarico di fronte all’opportunità sfumata di veder cambiare le cose in Turchia. E in effetti l’esercito turco ricopre un ruolo sostanzialmente differente rispetto agli eserciti della maggior parte dei paesi occidentali: i soldati e le gerarchie militari della Turchia non costituiscono un insieme di semplici “professionisti delle armi”, ma a loro è stato affidato dal padre fondatore dello stato moderno turco, Mustafa Kemal, il compito di vigilare sulla laicità dello stato (non sulla democrazia, beninteso). E quindi credo che in molti, messi sui piatti della bilancia i pro e i contro, abbiamo pensato che forse un’opportunità all’esercito si poteva anche concedere.
È grande, a questo punto, la tentazione di approfondire la natura e le ragioni dell’ipocrisia (in cui purtroppo mi ritrovo completamente) di un Occidente che da un lato difende la democrazia, arrivando a esportarla con successi altalenanti in altre parti del mondo, e dall’altro resta a guardare, di sicuro con neutralità, forse con simpatia, i carri armati presidiare i ponti e gli aeroporti di Istanbul. Ma sinceramente non vedo molta novità in questo aspetto della faccenda: limitiamoci a tracciare un continuum tra quanto (quasi) accaduto in Turchia e quando accadde nel 2013 in Egitto, allorché il presidente Morsi (eletto democraticamente) venne destituito dall’esercito in seguito a un movimento di protesta civile seguito con attenzione e grande eco da tutto il mondo occidentale.
Preferisco concentrarmi su due aspetti forse meno scontati. Il primo: perché il golpe egiziano è riuscito e quello turco no? Si potrebbe dire che le proteste civili del Cairo non si sono presentate in egual misura in Turchia, ma si mentirebbe: proprio lo stesso 2013 è stato l’anno di Piazza Taksim e di Gezi Park. Erdogan ha avuto una legittimazione democratica e Morsi no? Anche qui non direi: i Fratelli musulmani nel giugno del 2012 presero il 51 per cento dei voti, contro il 48 per cento del partito di Mubarak. Questo dato, piuttosto, serve a farci capire che l’avere la maggioranza dei consensi non è garanzia di stabilità, e serve quindi a dare torto a chi ha affermato che Erdogan è rimasto al potere perché ha una solida base di consenso. È vero, ma anche Morsi l’aveva, e abbiamo visto che fine ha fatto.
Sono quindi forse altre le ragioni dello scampato rischio del presidente turco: in primo luogo, Erdogan è più scaltro e navigato di Morsi: il leader dei Fratelli musulmani (con ogni probabilità finanziati a suo tempo anche dal partito di governo turco) è stato troppo audace nell’improvvisa islamizzazione del suo paese, ha spaventato la parte laica dell’Egitto e, ancor di più, ha spaventato le potenze occidentali, che han benedetto il golpe e forse hanno contribuito al movimento di protesta che ha rovesciato il governo di matrice islamica.



Erdogan invece in questi anni ha saputo muoversi con atteggiamenti metamorfici davvero unici, prima mostrandosi aperto al dialogo e promotore della pace, poi reprimendo le proteste, poi usando l’instabilità politica alle frontiere per martellare la resistenza curda… Da un lato il presidente turco si mostra pronto a entrare in Europa, usa con maestria l’arma degli immigrati trattenuti al di qua del muro europeo, tesse relazioni e ottiene promesse dall’amica Germania. D’altro canto reprime l’informazione di opposizione, usa toni violenti e radicali contro chiunque osi parlare di “genocidio armeno”, ogni altro giorno promuove direttamente o indirettamente azioni di islamizzazione della vita civile e delle tradizioni turche.
In particolare su quest’ultimo punto, Erdogan negli ultimi mesi ha quasi del tutto gettato la maschera: il 4 luglio, nemmeno due settimane fa, un muezzin, dopo ottant’anni dalla musealizzazione del complesso voluto da Ataturk, ha intonato la preghiera dalla Basilica di Santa Sofia. Un’altra Santa Sofia, questa volta a Trebisonda (Trabzon in turco), edificata nel 1250, è stata convertita in moschea nel 2013. Il maggio scorso si sono ultimati i lavori di restauro e di “adeguamento al culto”, con il placet delle autorità di Ankara, e solo allora è arrivata la conferma che il ciclo di affreschi del XIII secolo all’interno della chiesa è stato distrutto, e che i mosaici sono stati coperti con intonaci. Quanti giornali hanno ripreso questa notizia? Quante televisioni ne hanno parlato? Quanta differenza c’è tra i Buddha di Bamiyan fatti saltare in aria, tra le rovine di Palmira prese a colpi di piccone, e questa azione di deliberata e gratuita distruzione del patrimonio artistico e culturale turco nel senso di una islamizzazione sempre più violenta e settaria?
E arriviamo al secondo aspetto: cosa capiterà adesso? Non credo a chi afferma che il golpe sia stato orchestrato da Erdogan per “darsi potere”. Forse ha atteso al varco i golpisti, sulle cui intenzioni potrebbe essere stato informato con giusto anticipo dai servizi segreti, o da parti lealiste delle forze armate. Quale che sia la verità, di certo Erdogan ha dimostrato di voler ottenere il profitto maggiore dal momento propizio: prova ne sia la purga dei circa tremila magistrati licenziati a poche ore dalla risoluzione del golpe… O le cancellerie del governo turco sono molto veloci a scrivere, o quei nomi erano già su una lista, pronta a saltar fuori al momento opportuno. Le televisioni che hanno trasmesso la manifestazione a sostegno di Erdogan la sera successiva al fallimento del golpe hanno mostrato piazze occupate da migliaia di persone che gridavano “Allahu akbar”.
In altre parole, appare chiaro come Erdogan stia muovendo con decisione verso la totale islamizzazione del paese. Se, come ormai è probabile, riuscirà a fare approvare la riforma costituzionale, la laicità dello stato voluta da Ataturk, da alcuni anni già pesantemente messa in discussione, sarà un ricordo.



La notizia di queste ultime ore, della volontà di Erdogan di “rispettare la volontà popolare” e reintrodurre la pena di morte, appare un triste segnacolo dei tempi che verranno. Sinceramente credo che il presidente turco continuerà con il suo atteggiamento scaltro e ondivago, che impedirà ai paesi occidentali di prendere una posizione chiara e omogenea nei suoi confronti. Soprattutto perché oggi sia la Nato che l’Europa hanno bisogno di una Turchia alleata. Poco importa se radicale e antidemocratica. Contenere i migranti e avere una base di appoggio per le operazioni anti Isis è più importante. Una conseguenza probabile di questa nuova Turchia sarà il suo allontanamento dall’Europa. È interessante notare come la fine di questo difficile sodalizio sarà forse conseguenza non tanto di un “no” detto a chiare lettere da un’Europa che sa cosa è e cosa non è, ma di un’autoesclusione del popolo turco e del suo nuovo “líder máximo”.
Guillame Joseph Gelot, disegnatore francese del XVII secolo, in un suo viaggio a Costantinopoli ottenne, con il sotterfugio e la corruzione di un guardiano, il privilegio di passare una notte chiuso nella moschea di Santa Sofia, per poterne così disegnare gli interni. Il rischio corso dal viaggiatore fu notevole, ma l’impresa che realizzò, narrata anche in un diario di viaggio dedicato a Luigi XIV, consegnò all’occidente moderno la prima descrizione tecnica degli interni della basilica. Spero che tra qualche anno non si rendano necessari tali sotterfugi per visitare uno dei monumenti più straordinari dell’umanità.