1962, America, costa del Pacifico. Su questa quinta – con una puntata negli stati centrali su al confine con il Canada – si snoda la trama di uno dei libri più originali e misconosciuti di Philip K. Dick, The Man in the High Castle, reperibile in italiano con il titolo La svastica sul sole nell’ottima traduzione di Maurizio Nati. Solo che Dick è uno scrittore di fantascienza, come avremmo detto un tempo, o – per essere più al passo – di science-fiction (da un suo racconto, è noto, venne tratto quel capolavoro che è Blade Runner): perciò l’America del 1962 non è quella ruggente di Elvis, di Fonzie o del triangolo mortale tra John, Jackie e Marylin, ma un’America in cui il Canada resta il Canada, al centro-sud tutto è più meno uguale, ma in quella porzione di terra che siamo abituati a pensare a fasi alterne come il covo di ogni bassezza o come l’impero della libertà non ci sono gli Stati Uniti, bensì tre stati distinti: la costa occidentale occupata dai giapponesi che guidano gli Stati Uniti del Pacifico; gli stati interni semiliberi riuniti sotto il nome di Stati delle Montagne Rocciose; e la costa est, che conserva l’antico nome ma è sotto il giogo del Terzo Reich.



Sì, perché Dick è appunto uno scrittore di realtà molto reali ma distopiche e in questo suo 1962 Roosvelt ha governato un solo anno, Hitler è morto di morte naturale e – soprattutto – l’Asse ha vinto la guerra. Ci sarebbero già gli ingredienti per una narrazione appassionante (un gioco simile verrà infatti tentato anni dopo da Robert Harris con Fatherland), ma la genialità di Dick emerge nell’intessere il libro intorno alla dicotomia tra visione e narrazione da un lato e tra arte e verità dall’altro. Che paiono, o potrebbero apparire, problemi di uno scrittore alle prese con una meta-riflessione sulla propria opera, ma sono invece problemi di ogni uomo in ogni tempo, come le vite dei personaggi ci raccontano. Perché, altrimenti, l’industriale Wyndham-Matson dovrebbe discutere con la sua amante su «che cos’è la storicità (p. 83)»? Non stanno parlando, i due, di massimi sistemi, ma di un contrabbando di cimeli finto-storici della vecchia America, prodotti e venduti in serie per gli entusiasti occupanti giapponesi: «È tutto un grosso imbroglio […] Voglio dire, una pistola viene impiegata in una famosa battaglia, come quella di Meuse-Argonne, ma se non fosse stata usata sarebbe esattamente la stessa. A meno che tu non lo sappia».



Che cos’è vero e cosa no, qual è la mossa giusta, quale il senso, la strada, il destino? Sono le domande che muovono i personaggi, nella loro costante ricerca di un significato agli accadimenti, affidata di volta in volta all’I-Ching o allo strano best seller La cavalletta non si alzerà più, libro vietatissimo negli stati orientali e semiclandestino nel resto del Paese, che racconta un assurdo mondo in cui gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno vinto la guerra. Domande sempre irrisolte eppure sempre riaffioranti, inevitabili e inesorabili, come riconosce il signor Tagomi, che – perso il suo equilibrio e ogni struttura di senso cui riferirsi – non può comunque fare a meno di desiderare, come e più di sempre, la risposta: «Eppure, se una persona, anche una sola, trova la sua via… ciò significa che c’è una Via (p. 235)».



Una caccia che nel suo oscillare tra formalismo e verità tiene insieme l’arte e la vita, lo scorrere degli eventi e la loro rappresentazione, fino all’intuizione che anche la via, proprio perché via, non può essere forzata ma solo percorsa: «Non si può costringere la comprensione a raggiungerti per forza(p. 241)», soprattutto quando la colpa incombe («non si può cancellare il sangue […] come se fosse inchiostro», p. 245), o quando appena vinta una battaglia il giorno nuovo sembra sovrastarci, impegnarci in una lotta senza fine e navigata a vista: «Il tremendo dilemma delle nostre vite. Qualsiasi cosa succeda, è male al di là di ogni confronto. E allora perché lottare? Perché scegliere? (p. 253)».

Perché lottare o scegliere se non conosciamo l’oggi e non sappiamo sperare il domani? Dick non risponde, e non lo fanno i suoi personaggi. Ma la domanda resta, anche di fronte al male, anche di fronte all’inspiegabile assurdo, aggrappata a un quasi niente, a un briciolo di bene, a un dono: «Una nuova vita, pensò. Come una rinascita. Non come, cavolo. È una rinascita. Chi devo ringraziare? Forse dovrei pregare? Vorrei capire (p. 249)».